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lunedì 10 aprile 2023

Considerazioni parmenidiane di Will Storr

E poi ditemi che Parmenide non aveva ragione. :-)

“Il nostro cervello non sta assolutamente sperimentando in modo diretto la realtà in cui siamo immersi. In realtà, è rinchiuso nel silenzio e nell’oscurità della vostra scatola cranica.» Questa ricostruzione allucinatoria della realtà viene talvolta definita come “modello” cerebrale del mondo. Ovviamente un simile modello dovrà essere in qualche misura accurato, altrimenti finiremmo per andare a sbattere contro i muri mentre camminiamo, o per ficcarci la forchetta nella giugulare quando mangiamo. E questa precisione la dobbiamo ai nostri sensi. I sensi ci appaiono come strumenti infallibili: i nostri occhi sono finestre tersissime attraverso cui osservare il mondo in ogni sua sfumatura di colore, in ogni suo minimo dettaglio; le orecchie sono canali in cui si riverseranno i suoni della vita. Ma le cose non stanno proprio così. La verità è che i sensi trasmettono al nostro cervello soltanto informazioni limitate, parziali. …
L’incarico che spetta a tutti i nostri sensi è raccogliere indizi dal mondo esterno sotto varie forme: onde luminose, mutamenti nella pressione dell’aria, segnali chimici. Tutte queste informazioni verranno poi tradotte in milioni di impulsi elettrici quasi impercettibili. Di fatto, il cervello legge questi impulsi elettrici proprio come un computer legge un codice, e li utilizza per costruire attivamente la nostra realtà, dandoci l’illusione che questa allucinazione controllata sia reale. Dopodiché, sfrutterà i sensi per compiere le verifiche del caso, e apportando in tutta fretta gli aggiustamenti necessari, se si accorge che qualcosa non torna.”
...
“È proprio in virtù di questo processo che a volte ci capita di “vedere” cose che in realtà non ci sono. Immaginate che sia già buio e che laggiù, accanto al cancello, vi sia sembrato di vedere un tipo assurdo, mezzo rannicchiato, con un cilindro in testa e un bastone in mano, ma presto realizzate che si trattava solo di un ceppo d’albero ricoperto da un grumo di rovi. Dite alla persona che è con voi: “Ma sai che per un istante mi è sembrato di vedere un tipo assurdo, laggiù?” In realtà, quel tipo assurdo l’avete visto per davvero. Il vostro cervello pensava ci fosse, e così ce l’ha messo; poi, una volta che vi siete avvicinati, e ha avuto modo di ricevere nuove e più accurate informazioni, si è affrettato a riconfigurare la scena, a correggere la vostra allucinazione.”
...
“Se i nostri sensi sono così limitati, come possiamo sapere con certezza che cosa accade realmente fuori dal buio e dal silenzio della nostra scatola cranica? Il vero guaio è che non possiamo. Come un vecchio televisore capace di leggere solo il segnale in bianco e nero, la nostra tecnologia biologica non è materialmente in grado di elaborare gran parte di quello che effettivamente accade nei vasti oceani di radiazioni elettromagnetiche in cui siamo immersi. Gli occhi umani riescono a leggere meno di un dello spettro luminoso. «L’evoluzione ci ha dotati di capacità percettive che ci consentono di sopravvivere» sostiene Donald Hoffman, uno scienziato cognitivo. «Ma questo prevede anche di occultarci tutto quello che non ci serve sapere. In pratica, l’intera realtà, qualunque cosa essa sia.»"
...
“Sappiamo che la realtà vera è profondamente diversa da quel suo modello che sperimentiamo nella nostra testa. Per esempio, fuori dal nostro cervello non esiste alcun suono. Se un albero cade nella foresta, ma nei paraggi non c’è nessuno a sentirlo, il suo crollo indurrà solo dei mutamenti nella pressione dell’aria e qualche vibrazione nel terreno. Il suono dello schianto è un effetto che avviene nel cervello. Quando sbattiamo l’alluce contro uno spigolo e lo sentiamo pulsare forte per il dolore, anche quella è un’illusione. Il dolore non è nel nostro dito, ma solo nel nostro cervello. Là fuori non esistono nemmeno i colori. Gli atomi non hanno colore.”
...
“L’unica cosa che potremo mai davvero conoscere sono gli impulsi elettrici inviati dai sensi. Il nostro cervello narratore utilizza tali impulsi per creare il variopinto scenario su cui andremo a interpretare la nostra vita. Poi lo completerà con un cast di attori, a loro volta dotati di obiettivi, personalità, e di un copione da seguire. Perfino il sonno non rappresenta un ostacolo per i processi narrativi del nostro cervello. I sogni ci sembrano reali perché si basano sugli stessi modelli neurali allucinatori in cui viviamo da svegli. Le cose che vediamo sono le stesse, gli odori sono gli stessi, perfino al tatto gli oggetti ci appaiono gli stessi. L’effetto surreale dei sogni dipende in parte dal fatto che i nostri sensi controllori sono temporaneamente spenti, e in parte perché il cervello deve interpretare le caotiche esplosioni di attività neurale dovute al nostro temporaneo stato di paralisi. Per spiegare questa confusione il nostro cervello reagirà come al solito: metterà insieme un modello di mondo e tirerà fuori dal cilindro una storia basata su causa-effetto. Spesso nei sogni precipitiamo da un edificio o inciampiamo per le scale, una storia che il nostro cervello si inventa per giustificare uno «spasmo mioclonico», ovvero una fastidiosa e improvvisa contrazione muscolare. “

lunedì 29 agosto 2022

I paradossi di Zenone sul movimento e il dualismo spazio-tempo – Umberto Bartocci

Umberto Bartocci, I paradossi di Zenone sul movimento e il dualismo spazio-tempo, Episteme, Physis e Sophia nel III millennio, Perugia, N. 8, 2004.

Umberto Bartocci è un matematico, studioso dei fondamenti della matematica e della fisica, noto anche per aver sostenuto tesi minoritarie, come, ad esempio, una critica all’approccio formalistico della matematica proponendo un ritorno a una "fondazione classica".

In questo articolo, pubblicato su Episteme, un giornale ideato e curato dallo stesso Bartocci, il matematico romano riporta sue ricerche e interpretazioni nell'ambito dei paradossi di Zenone e temi correlati. 
In estrema sintesi, Bartocci asserisce che i paradossi di Zenone non possano essere "risolti", ma se ne può solo “spiegare la radice”. E questa ha a che fare con le modalità di funzionamento della nostra mente “ogni volta che si cerchi di concepire esattamente qualsiasi forma di movimento”.
Ponendosi al di fuori della tradizionale interpretazione in cui il tempo, così come lo spazio, è una grandezza continua, Bartocci asserisce che spazio e tempo si intuiscono in modi inconciliabilmente differenti: il primo lo si percepisce densamente popolato da segmenti infinitamente divisibili, e il secondo lo si immagina costituito da intervalli non infinitamente suddivisibili.

Detto in altre parole, il modo in cui intuiamo lo spazio fisico nel quale ci muoviamo sarebbe molto simile al modello ideale dello spazio euclideo usato in geometria: uno spazio continuo costituito da punti infinitesimi e immateriali; mentre il tempo verrebbe percepito come un susseguirsi di attimi atomici ma non infinitesimali e quindi non infinitamente suddivisibili, cioè come un insieme discreto.

Per sottolineare chiaramente la distinzione tra spazio e tempo percepiti e spazio e tempo reali Bartocci fornisce anche una tabella che riassume la sua interpretazione.
Il movimento esiste nella realtà, e in quanto tale non implica alcuna contraddizione: esso è, semplicemente, come intendeva Diogene”, dice Bartocci.
Quindi la radice dei paradossi sarebbe solo nella nostra percezione della realtà e non nella realtà stessa. E, in particolare, nello scollamento tra nostra percezione intuitiva di spazio e di tempo da un lato e il modo in cui i paradossi vengono invece solitamente inquadrati da un punto di vista logico-razionale dall’altro.
L’errore sarebbe proprio nel nostro modo di rappresentare formalmente il tempo. Confondendo le sue caratteristiche con quelle dello spazio lo si tratta attraverso il concetto di "numero reale", che è valido, dice Bartocci, solo per esprimere le misure geometriche di segmenti ma non gli intervalli di tempo. 
Si scambia cioè la necessaria (per l'intuizione umana dello spazio) infinita suddivisibilità dei segmenti della retta spaziale R, con una corrispondente infinita suddivisibilità degli analoghi segmenti della retta temporale T, invece impossibile per l'intuizione umana”.

Alla domanda “come mai ci troviamo quasi d'accordo con Zenone, nel negare la "possibilità razionale" del movimento?" Bartocci risponde: “l'intelletto umano non può concepire l'infinita suddivisibilità di un segmento temporale, con la conseguenza che una somma infinita di siffatti segmenti non può essere per esso altro che divergente”.

Esprimendo il pensiero in termini più matematici Bartocci afferma che: “Accanto alla retta spaziale R, esiste - "nella nostra mente" - un'analoga retta temporale, indichiamola con il simbolo T. Si tratta di un insieme ordinato, meglio spazio ordinato, che rappresenta il tempo nell'intelletto, allo stesso modo che R vi rappresenta lo spazio, almeno nella sua manifestazione 1-dimensionale. Le due "rette" si "assomigliano" di fatto sotto diversi aspetti” … “La retta spaziale R è concepita però in maniera che tra un punto e l'altro ce ne sono sempre infiniti, sicché non c'è alcun modo di introdurre il successivo di un determinato punto. Al contrario, la retta temporale T appare formata da istanti "separati”, ogni istante ha un successivo e un precedente, tra un istante e un altro non si riesce a immaginarne infiniti. T è quello che si dice uno spazio ordinato discreto, mentre R è invece uno spazio ordinato continuo: insomma, R e T non sono strutture isomorfe. È lecito prendere in considerazione, sia in R che in T, delle serie, ossia delle somme infinite di segmenti, ed ecco che dalla fondamentale differenza strutturale tra le due "rette" procede la circostanza che deve ritenersi tanto l'origine dei paradossi, quanto la loro "soluzione": in R esistono delle serie di segmenti convergenti, in T ogni tale serie è necessariamente divergente.

Il semigruppo delle classi di equivalenza di segmenti associato a R, indichiamolo con S, non ha né minimo né massimo, quello associato a T, diciamolo Q, non ha massimo, ma ha un minimo, la classe d'equivalenza dei segmenti con due soli istanti ("il" segmento con due soli istanti). Q può ritenersi coincidere proprio con N = { 1,2,3,...} , l'insieme dei numeri che si dicono naturali.

In altre parole ancora, R e T sono strutture non isomorfe, né se le si riguarda come spazi ordinati, né come insiemi, cioè appare impossibile stabilire, per le caratteristiche proprie degli enti coinvolti, una corrispondenza biunivoca tra segmenti di spazio ideale percorso (elaborazioni della pura geometria della retta continua ideale), e associati segmenti di tempo. Ovvero, la nostra mente è costretta a concepire delle posizioni spaziali virtuali che non possono essere effettive, non possono essere di fatto occupate, non esistendo un istante in cui tale "occupazione" possa avere luogo. Una coppia ordinata del tipo posizione-istante, o spazio-tempo, è quello che si dice un evento, e potremo allora pure sintetizzare la nostra opinione asserendo che: non ogni posizione spaziale del tragitto di Achille corrisponde a un evento.

venerdì 22 luglio 2022

Parmenides Reloaded: tra eleatismo e moderne teorie dei campi

Oltre al libro di Giovanni CerriGustavo E. Romero, Parmenides Reloaded 1, è un altro dei testi a cui mi sono ispirato quando ho scritto le parti del mio nuovo (e ancora inedito) libro che citano il pensiero parmenideo.

Il professore di astrofisica relativistica Romero descrive la sua visione di uno spazio-tempo quadridimensionale e non dinamico in cui il divenire, quindi il tempo, non è una proprietà intrinseca della realtà. Questa e altre caratteristiche rendono la concezione romeriana dell’universo molto simile a quella parmenidea.

Nel suo poema, descritto da Romero come il primo esempio conosciuto di un sistema deduttivo applicato alla realtà fisica, Parmenide afferma che il divenire è un’illusione e che la realtà è immutabile, eterna e immobile. Molti secoli dopo, dice Romero, con l'avvento delle teorie dei campi, diventa chiaro che il cambiamento può avvenire anche in un universo completo. Infatti, una perturbazione in un campo che riempie l'inntero universo è un cambiamento.
Tuttavia, sebbene il concetto di cambiamento sia “centrale nel modello multiforme dello spazio-tempo, una volta che la geometria della varietà è determinata da un campo tensoriale che rappresenta la distribuzione di energia e quantità di moto, la sua struttura è fissa. I punti della molteplicità rappresentano eventi, ma non vi è alcun evento o cambiamento che influisca sullo spazio-tempo nel suo insieme. Lo spazio-tempo quadridimensionale, rappresentato matematicamente dal molteplice, è immutabile, eterno, immobile, unico, proprio come l'universo parmenideo. Gli oggetti che popolano l'universo sono quadridimensionali. Hanno "parti temporali", così come parti spaziali. In questo modo, il bambino che ero, è solo una parte di un essere più grande, io, che è quadridimensionale. Ciò che chiamiamo "nascita" e "morte" sono solo confini temporali di un tale essere. Il cambiamento appare solo quando consideriamo fette tridimensionali di oggetti quadridimensionali. Nelle parole di Max Tegmark: ‘Il passare del tempo è un'illusione. Abbiamo questa illusione di un mondo mutevole e tridimensionale, anche se nulla cambia nell'unione quadridimensionale di spazio e tempo della teoria della relatività di Einstein. Se la vita fosse un film, la realtà fisica sarebbe l'intero DVD: i frame futuri e passati esistono tanto quanto quello presente’”.
Romero offre anche un confronto tra spazio-tempo parmenideo e una sua interpretazione del pensiero di Eraclito proponendo che, a differenza di quanto si è pensato per millenni, probabilmente per una tradizione che ha origine in Platone, queste due visioni non siano incompatibili. Il kosmos (o spazio-tempo in una visione moderna) potrebbe essere immutabile e comunque formato da cose mutevoli, come il fiume di Eraclito.
Romero conclude affermando che Parmenide esiste in una regione dello spazio-tempo situata tra Elea e la Grecia, tra la fine del VI sec. a.C. e la metà del V sec. a.C., e per un po’ di tempo condivise il suo presente con Zenone. “Io”, scrive Romero, “esisto in un’altra regione dello spazio-tempo e non incontrerò mai Parmenide. Ma popoliamo entrambi lo stesso spazio-tempo e per questo mi sento fortunato”.

Marco Fulvio Barozzi ha scritto una recensione dell’articolo di Romero più approfondita della mia.

1 Foundations of Science 17 (3):291-299 (2012)

mercoledì 13 luglio 2022

L'interpretazione del pensiero parmenideo proposta da Giovanni Cerri - quarta parte - Dalla cosmologia alla dialettica - Paradossi di Zenone e la matrice parmenidea dell’atomismo

Giovanni Cerri et al., Dall'universo-blocco all'atomo nella scuola di Elea: Parmenide, Zenone, Leucippo, a cura di Massimo Pulpito e Sofia Ranzato, Academia


Quarta Parte - Dalla cosmologia alla dialettica

Per questa quarta parte riporterò perlopiù il testo di Cerri senza agiungere troppi commenti.

"I nuovi filosofi, che possiamo chiamare post-socratici, avendo posto la dialettica al centro del loro pensiero, elaborarono sistemi fisici, concepiti come lunga catena di enunciati legati l'uno all'altro dal principio di non contraddizione e non come riflessione operativa su un'attività di ricerca fisico-matematica militante e originale. Esempio tipico e superbo di questo tipo di costruzioni teoriche fu la Fisica di Aristotele. Si verificò quindi una vera e propria ridislocazione disciplinare. La fisica, la matematica, l'astronomia furono ritenute discipline specialistiche e lasciate a specialisti, che per parte loro non si occupavano più di sintesi finali di ordine cosmologico. La filosofia includeva bensì tra i suoi grandi capitoli la fisica, ma la fisica filosofica, non quella “scientifica”. La cosmologia in senso forte restò senza padri; sostanzialmente scomparve.

I nuovi filosofi ripresero in mano gli scritti degli antichi, con l'intento lodevole di fare la storia della propria disciplina, ma senza rendersi conto che quegli scritti configuravano una disciplina ben diversa dalla loro, a dispetto dei nomi comuni e ambigui di 'filosofia' e di 'fisica'. Li ripresero in mano e li sottoposero a disamina dialettica: credettero di trovare qua e là intuizioni apprezzabili, ma soprattutto errori logici, da loro attribuiti a una pretesa arcaicità e primitività di quei pensatori, ancora ignari della logica, fondata dopo di loro. Esemplare in questo senso è il giudizio di Eudemo, secondo cui i pensatori antecedenti alla scoperta della dialettica e della logica, 'enunciavano senza dimostrazione'. E pronuncia questa sentenza stroncatoria proprio a proposito della teoria parmenidea dell'ente uno!

È vero: enunciavano senza dimostrazione. Ma non avrebbero potuto fare altrimenti. Per quanto riguarda i loro teoremi matematico-geometrici e astronomici, dovevano di necessità limitarsi ad enunciazioni indimostrate, perché non era ancora nata al loro tempo la prassi del trattato minuzioso ed esaustivo, i loro scritti erano istituzionalmente manuali elementari e divulgativi. Le dimostrazioni c'erano, ma restavano nella loro testa e nel loro insegnamento orale. Per quanto riguarda invece le proiezioni di cosmologia generale, esse erano effettivamente prive di dimostrazione, perché non erano e non potevano essere teoremi compiuti, ma erano congetture ardite sulla natura ultima delle cose, le congetture che sembravano loro più verosimili sulla base dell'insieme dei loro saperi particolari, ma pur sempre intuitive, ipotetiche, tutte da verificare nel prosieguo della ricerca.

E, data questa loro natura di abbozzo concettuale, erano espresse in metafore immaginose ed esemplificative, non in una terminologia univoca e rigorosa, che non erano in grado di attingere.
La cosmologia presocratica, ivi compresa quella parmenidea del monoblocco corporeo, deve essere perciò considerata l'antenata, piuttosto che della metafisica filosofica, di quelle sintesi cosmologiche e/o cosmogoniche che spesso coronano il percorso teorico dei fisici più avanzati dei nostri giorni. Anche i loro scritti sono insieme congetturali e divulgativi come quelli dei presocratici.“.


Paradossi di Zenone e la matrice parmenidea dell’atomismo

Cerri conclude icosì la sezione del libro che si occupa di Zenone: “Sui paradossi di Zenone si è sviluppata un' imponente letteratura critica in epoca moderna ad opera di matematici, fisici ed epistemologi che, a differenza di troppi storici della filosofia e filologi loro contemporanei, hanno mostrato di prenderli molto sul serio e hanno fatto ricorso a tutta la loro dottrina, ovviamente ben più evoluta di quella di Zenone, per cercare di risolverli. La maggior parte di loro alla fine però è incline a concludere che quelle aporie conservano un margine ineliminabile di aporeticità, nonostante i tentativi analitici più sofisticati.

Ciò dimostra che Zenone, ma certo prima di lui già Parmenide, avevano saputo cogliere fino in fondo il mistero insolubile delle antinomie uno-molti, tutto-parti, continuo-discontinuo, finito-infinito, ecc. Si illudevano di averlo risolto con la fuga in avanti (o all'indietro) dell'uno-tutto-continuo, che fu da un certo punto di vista anche una fuga dal problema stesso. Ma questo e un altro discorso.

Come si è visto, nel corso del mio lavoro non ho fatto alcun cenno a questa pregevolissima letteratura fisico-matematica, anche se poi, nella bibliografia finale, non ho mancato di inserire alcuni contributi, che per altro ho letto attentamente, anche se non sempre sono stato in grado di comprenderli fino in fondo. La ragione di questa mia omissione è che il mio intento non è stato in nessun caso quello di risolvere i problemi posti da Zenone, non solo perché non ne sarei capace, ma anche perché sono fermamente convinto che siano insolubili. Ho voluto invece: 1) Ricostruire filologicamente i termini esatti in cui Zenone pose i suoi problemi; 2) Capirne il senso finale, la funzione argomentativa, che ho creduto di ravvisare nella denuncia delle aporie dell'idea di molteplice, a sostegno dell'idea parmenidea di uno. In sostanza ho voluto fare opera di filologo e di storico del pensiero presocratico, non di matematico, fisico o filosofo, che non sono e non intendo essere”.

Infine, la sezione del libro su “Leucippo e la matrice parmenidea dell’atomismo”, evidenzia la paradossalità del rapporto tra eleatismo e atomismo, che è di opposizione radicale e di continuità profonda al contempo. Riducendola ai minimi termini, Cerri afferma: "gli atomisti del V secolo a.C., per salvare i fenomeni dalla negazione eleatica, sostituirono all'unicità dell'essere la pluralità infinita degli atomi; riconoscendo cioè la validità sostanziale dell’ontologia di Parmenide, trasferirono sui singoli atomi le caratteristiche fondamentali che egli aveva assegnato all'essere unico, tutte, tranne ovviamente l'unicità: dunque, l'unità, l'indivisibilità, l'impenetrabilità, I'eternità, l'immutabilità". 

L’autore nota anche che la ricostruzione più generale, secondo cui l'atomismo sarebbe uno sviluppo logico dell’eleatismo, era già presente nella critica antica. Già Aristotele osserva che sia gli atomisti, sia Parmenide sostenevano: ciò che esiste in senso stretto: ‘non può che essere assolutamente pieno’, ma per gli atomisti ‘questo ente non è uno, ma ve ne sono infiniti per numero, per giunta invisibili, data la piccolezza delle loro masse’. Il rapporto analogico tra ente macroscopico di Parmenide ed enti microscopici degli atomisti sarebbe quindi evidente e incontestabile. E la seconda dottrina sarebbe una nuova congettura fisica intesa a superare le aporie nelle quali incorreva la prima.

mercoledì 6 luglio 2022

L'interpretazione del pensiero parmenideo proposta da Giovanni Cerri - terza parte - Affinità rispetto a Hawking e alla teoria quantistica dei campi

Giovanni Cerri et al., Dall'universo-blocco all'atomo nella scuola di Elea: Parmenide, Zenone, Leucippo, a cura di Massimo Pulpito e Sofia Ranzato, Academia


Terza parte - Affinità rispetto a Hawking e alla teoria quantistica dei campi

Sempre sul paragone tra Parmenide e gli altri presocratici, il filologo classico, grecista e traduttore, Giovanni Cerri afferma che a un’attenta rilettura dei frammenti pertinenti “si deve concludere che Parmenide non si propone, come tutti gli altri filosofi della natura, di individuare il principio oggettivo della realtà ma vuole invece descrivere il meccanismo attraverso cui la mente umana, partendo da impressioni puramente sensoriali, ha elaborato una prima fallace distinzione, dalla quale sono discese tutte le altre e sulla quale si è costruito il complesso sistema di nozioni che, contrassegnate ciascuna da una parola, coincidono col patrimonio linguistico”.

Sulla temporalità dell’Ente Cerri afferma che “la sesta tra le categorie ontologiche elencate da Parmenide è quella per cui l’Ente è eternamente perfetto: ‘incompiuto mai non fu né sarà, perché è tutto insieme adesso’. Se fosse nel tempo, avrebbe una storia, in ogni momento della quale sarebbe ‘incompiuto’ rispetto al momento successivo. E questo non è pensabile. Supera dunque tutti i tempi finiti, e in questo senso è temporalmente infinito; ma non si stende per tutti gli infiniti tempi finiti, bensì è presente immoto, senza passato né futuro, e in quest’altro senso è temporalmente finito. Dunque l’ente è temporalmente insieme infinito e finito; meglio, è atemporale. … l’eternità atemporale è paragonabile ad un attimo fuggente sottratto alla catena passato-presente-futuro. Per lo stesso problema, i fisici del Novecento adducono anche il paragone con una pellicola cinematografica srotolata e tutta compresente allo sguardo di un osservatore“.

Sulla spazialità dell’Ente: “L’analogia con lo spazio geometrico ci porterebbe a dire che l’ente è spazialmente infinito. Ma qui non si tratta di spazio geometrico, ma di spazio reale e cosmologico. Se fosse infinito spazialmente, l’ente sarebbe incapace dell’equilibrio statico che lo contraddistingue: aperto all’infinito in tutte le direzioni, sarebbe dappertutto imperfetto nello spazio, come lo sarebbe nel tempo, se la sua eternità fosse durata infinita. Certo non c’è punto dello spazio reale, apparentemente infinito, che non sia ricompreso nell’ente; ma lo spazio reale non può essere realmente infinito. Anche dal punto di vista dello spazio, come dal punto di vista del tempo, Parmenide ricorre ad un paragone, per dare l’idea di uno spazio insieme infinito e finito, di un finito illimitato: è il paragone con la superficie curva di una sfera ben forgiata da un artigiano.
Il paragone è certo di ordine geometrico, ma la sfera in questione non è la sfera geometrica, ma una sfera artigianale, realizzata alla perfezione, in pietra, in terracotta o in bronzo. C’è però un possibile equivoco da evitare: Parmenide non dice affatto che l’Ente totale abbia forma sferica; la superficie sferica viene evocata soltanto come termine di paragone per la finitezza illimitata, l’equilibrio perfetto, e l’isonomia assoluta che lo connotano”.

Nella sua interpretazione Cerri evidenzia più volte dei paralleli tra il pensiero di Parmenide e la fisica moderna. In un capitolo intitolato al parmenidismo inconsapevole di Hawking trascrive alcune riflessioni teoriche del grande fisico britannico per mostrare come queste “sembrino quasi una parafrasi di Parmenide, e come la fisica contemporanea possa giungere a proiezioni epistemologico-cosmologiche del tutto affini a quelle dell'eleatismo, sulla base di identificazioni scientifiche, quali spazio=tempo, materia=energia, infinito=finito. Identificazioni non meno conturbanti per la nostra sensibilità comune di quanto lo furono per la sensibilità corrente dei Greci del VI-V secolo a.C. le identificazioni proposte dalla scienza ionica. Purtroppo, grazie al travisamento del pensiero di Parmenide operato dagli storici della filosofia e della letteratura, accade che spesso gli scienziati moderni non si rendano conto della coincidenza, continuità o semplice analogia che essa sia. Tra l’altro, il confronto contribuisce a chiarire che la dottrina di Parmenide è effettivamente un’ontologia cosmologica generale, postulata sulla base dell’indagine fisica, non un’elucubrazione puramente logico-dialettica o una metafisica filosofica, in senso post-aristotelico.

Cerri riporta anche alcuni considerazioni di un altro fisico-cosmologo del nostro tempo, Fritjof Capra, per cui alcuni aspetti della fisica moderna, quali l’apparenza dell’universo come un tutto unico e inseparabile, che comprende sempre l’osservatore in modo essenziale, e anche la perdita del significato di concetti tradizionali quali quelli di spazio tempo, quelli di oggetti isolati e quelli di causa ed effetto, avrebbero molte similitudini con le esperienze di alcuni mistici orientali; che elaborarono concetti come quello dell’Universo/Uno e quello della molteplicità come effetto del rapporto di esso con l’osservatore umano, la cui mente lo scompone illegittimamente in categorie soggettive. “Capra trova un termine di confronto col misticismo orientale che, certo, per via mistico-intuitiva ha elaborato visioni analoghe; ma non pensa a Parmenide, che giunse alle stesse conclusioni per via scientifica, come i fisici del Novecento. Non lo conosce o, meglio, lo conosce attraverso le parafrasi moderne, che non dicono nulla in proposito”. Capra afferma anche che “‘la fisica moderna ha confermato nel modo più drammatico una delle idee fondamentali del misticismo orientale: tutti i concetti che usiamo per descrivere la natura sono limitati: non sono aspetti della realtà, come tendiamo a credere, ma creazioni della mente; sono parti della mappa, non del territorio’. Di nuovo il misticismo orientale! Non c’è nulla di male. Ma perché nulla su Parmenide, vero patriarca e archegeta della cosmologia fisica attuale?

Nello stesso capitolo Cerri elabora anche un parallelo tra concetti della moderna teoria quantistica dei campi e i concetti parmenidei di Essere tutto pieno e di inesistenza del Vuoto-Non Essere: “La teoria dei campi della fisica moderna ci costringe ad abbandonare la classica distinzione tra particelle materiali e vuoto. La teoria del campo gravitazionale di Einstein e la teoria dei campi mostrano entrambe che le particelle non possono essere separate dallo spazio che le circonda. Da una parte, esse determinano la struttura di questo spazio, mentre dall’altra non possono venire considerate come entità isolate, ma devono essere viste come condensazioni di un campo continuo che è presente in tutto lo spazio. Nella teoria dei campi, il campo è visto come la base di tutte le particelle e delle loro interazioni reciproche. Il ‘vuoto fisico’ – come è chiamato nella teoria dei campi – non è uno stato di semplice non-essere, ma contiene la potenzialità di tutte le forme del mondo delle particelle. Queste forme, a loro volta, non sono entità fisiche indipendenti, ma soltanto manifestazioni transitorie del vuoto soggiacente ad esse. Dunque, la fisica moderna esclude il vuoto, perché quello che sembra vuoto è in realtà ‘campo magnetico’ o ‘campo gravitazionale’, non disomogeneo rispetto alla materia, anzi ad essa equipollente e con essa convertibile secondo parametri di equivalenza. È giunta a questa conclusione per via sperimentale, attraverso il bombardamento meccanico degli atomi e delle particelle sub-atomiche. Parmenide era giunto all’esclusione del vuoto-Non Essere venticinque secoli prima, non per via di intuizione mistica, ma per via teoretica, tenendo fermi i due principi elementari che ‘nulla nasce dal nulla’ e che ‘l’effetto non può non essere identico alla causa’. Non aveva idea delle ‘stringhe magnetiche equipollenti alle particelle subatomiche’, ma si inchinava all’idea razionalissima che la Natura non ammette salti miracolosi.

domenica 26 giugno 2022

L'interpretazione del pensiero parmenideo proposta da Giovanni Cerri - seconda parte - affinità e divergenze rispetto all'atomismo antico e moderno



Seconda parte
Il dibattito sulla natura dell’ente parmenideo si divide ancora oggi tra interpretazione corporeista e interpretazione idealista. A favore della prima, Cerri cita sia il primo naturalismo greco, sia, più specificamente, l’operazione compiuta dal successore di Parmenide: Zenone.

Infatti, afferma Cerri, se si pensa ai paradossi di Zenone, ci si accorge che essi non sono accomunabili agli altri paradossi proposti dalla filosofia greca. Il ‘paradosso del mentitore' e il ‘dilemma del coccodrillo', tanto per citare due celebri esempi, sono di tipo puramente logico-linguistico. Mentre i paradossi di Zenone riguardano la grandezza, il numero e lo spostamento dei corpi nello spazio. Sono quindi rivolti alla fisica e alla cosmologia, piuttosto che alla dialettica. Cerri afferma inoltre che “i paradossi non costituiscono argomentazioni contro il movimento, ma ragionamenti contro il molteplice inteso come parcellizzazione spazio-temporale.

Nei quattro argomenti di Zenone, infatti, la divisione dello spazio e del tempo ad infinitum implica la negazione del moto, affermazione che appare invece assurda almeno a livello fenomenico”. Lo studioso fornisce quindi una riformulazione dei ragionamenti di Zenone sul moto secondo la sua interpretazione:

La dicotomia dello spazio - se le divisioni dello spazio che ci sembrano oggettive lo fossero veramente e avessero consistenza reale, un corridore al blocco di partenza, ricevuto il segnale, non potrebbe nemmeno muovere il primo passo e resterebbe con una delle due gambe sospesa in aria: infatti, prima di compiere il primo passo, dovrebbe fare mezzo passo; ma prima del mezzo passo, dovrebbe fare un quarto di passo; e così via all’infinito. Siccome invece la dicotomia dello spazio è immaginaria, non reale, e lo spazio è un continuo indiviso, il corridore può compiere tranquillamente il primo passo e tutti successivi, sotto gli occhi degli spettatori, che lo vedono correre effettivamente”.

Tra gli argomenti adottati da Zeller a favore della corporeità dell’ente parmenideo vi era anche la testimonianza degli immediati successori di Parmenide, tra cui Zeller e Burnet, includono gli atomisti, e, in particolare, Leucippo e Democrito. Questi ultimi, infatti, “con evidente riferimento alla dottrina parmenidea, identificano l'essere con il corpo e il non-essere con lo spazio vuoto …a differenza della fisica moderna che considera il vuoto diverso dal nulla. … Proprio il probabile iniziatore della corrente degli atomisti, Leucippo, pare possa essere indicato come punto di congiunzione con gli Eleati, giacché le fonti lo presentano come allievo di Zenone”.
Cerri tenta, infatti, di dimostrare che “il legame tra eleatismo e atomismo affonda le sue radici in un rapporto personale di Leucippo con la scuola eleatica. Molte fonti, infatti, collegano questo pensatore alla città di Elea e confermano l'idea di una successione filosofica che arriva fino a Democrito”. E sostiene che “mentre la dottrina atomista si pone a fondamento della fisica moderna e dei suoi sviluppi fino al primo quarto del Novecento, il pensiero parmenideo sembra anticipare le scoperte della fisica subatomica e dell'astrofisica contemporanee”.
Secondo Cerri, inoltre, “L'aporia di Parmenide consiste nel considerare i fenomeni percepiti dai sensi come un frutto gratuito dell'immaginazione umana ma, allo stesso tempo, nel considerarli scientificamente validi nella progressiva reductio ad unum. Ed è proprio per affermare la realtà oggettiva dei fenomeni e risolvere questa aporia eleatica, che Leucippo formulerà la sua teoria atomistica… nel sostenere che gli atomi sono principi intellegibili con caratteri necessari, ma, ammettendo l'esistenza del ‘non essere', assolutamente negata da Parmenide e dai suoi seguaci“.

È molto interessante anche l’interpretazione che Cerri esprime rispondendo a Massimo Pulpito: “sia per Parmenide, che per Zenone, la realtà dell'Essere immutabile, continuo ed omogeneo non può essere segmentata né in una pluralità spaziale che distingue un ‘qui‘ e un ‘lì', né in una temporale che ammette un ‘prima', un ‘adesso' e un ‘dopo'. Tali distinzioni sono ammissibili solo in una prospettiva soggettiva e, pertanto, opinabile, confinata alla dimensione della doxa. In questa prospettiva, la raffinata astronomia matematizzata di Parmenide si colloca all'interno di un sapere doxastico-scientifico, evoluto in direzione del più verosimile, ma non ancora in grado di attingere la verità ultima. In sostanza, dunque, per Cerri i paradossi zenoniani comunemente intesi come finalizzati a dimostrare l'impossibilità del moto intendevano in realtà dimostrare l'impossibilità della molteplicità”.
Relativamente all’astronomia matematizzata di Parmenide, Cerri afferma: “Se teniamo conto di tutte le notizie in nostro possesso su certi contenuti del poema di Parmenide, non possiamo mettere in dubbio che vi fosse esposta una mappa celeste estremamente avanzata per i suoi tempi, certo a prescindere dall’impostazione geocentrica, non eliocentrica… All’interno di questo sistema, spiccano tre scoperte recenti per cui … non siamo in grado di determinare se siano state fatte da Parmenide stesso o pochi decenni prima da Pitagora e dalla sua scuola: 
1) la Terra ha forma sferica, non piatta, come si era creduto fino ad allora; 
2) la Luna, quando splende è illuminata dal Sole, e le sue fasi risultano spiegabili pienamente col mutare della posizione reciproca di Sole-Terra-Luna nello spazio;
3) Espero e Lucifero non sono due astri, ma un solo e stesso astro, che merita un nome unico e nuovo, Afrodite.
Tutte queste tesi presuppongono una ricerca scientifica lunga e laboriosa, nella quale possiamo distinguere due componenti. Una di rilevazione sperimentale: deve essere stato necessario redigere una descrizione diaristica, prolungata per anni, della mappa celeste, ora per ora e giorno per giorno, per quanto riguarda il Sole, notte per notte, per quanto riguarda gli altri astri. E una componente matematico-geometrica: ipotesi geometriche verificate e corrette costantemente attraverso il calcolo matematico. … In particolare due delle scoperte sopra menzionate avevano esito in enunciati direttamente imperniati sulla copula ἐστί: la luce della Luna «è» la luce del Sole; Espero «è» Lucifero … una dichiarazione di eguaglianza, che noi siamo soliti rappresentare col segno di ‘eguale’ (=) … Parallelamente, il «non è» rinvia alla diseguaglianza implicita nell’accettazione di una cosa come irriducibilmente diversa dalle altre. Certo anche lo scienziato è ben lontano dall’aver superato tutte le diversità in identità superiori, ma sa che ciò è dovuto alla parzialità delle sue conoscenze e che lo sviluppo futuro della ricerca porterà a sempre nuove identificazioni: quindi punta senza posa all’identificazione, all’enunciato imperniato sull’«è». Chi invece si ferma al «non è», ritenendo anzi di progredire sulla via della conoscenza registrando le diversità, si rassegna senza saperlo, a non capire nulla della realtà che lo circonda; spinto da una curiosità vana, continuerà a registrare e memorizzare dati che non sarà mai in grado di elaborare”.

Per fugare possibili dubbi Cerri chiarisce anche che la sua interpretazione non implica che Parmenide prevedesse che la scienza del futuro avrebbe dimostrato l’identità di sole e luna. Cerri si dice invece certo che Parmenide prevedesse un’evoluzione della scienza futura verso un modello in cui “tutti i fenomeni, e quindi anche sole e luna, sono frutto di immaginazione artificiosa dell’uomo, e che la realtà è un tutt’uno continuo, indistinto e immutabile. Una posizione in certo senso analoga a quella di molti fisici contemporanei e alla loro attesa quasi messianica della cosiddetta ‘teoria M. Di una teoria che unifichi in sé le teorie, per ora diverse ed eterogenee, dell’attrazione magnetica, dell’attrazione infra-atomica e dell’attrazione gravitazionale. Di una teoria unica, in grado di spiegare tutte le cose e tutti i fenomeni con un’unica formula fisica. Il che è né più né meno che aspettarsi che la realtà, mentre nell’opinione comune degli uomini appare infinitamente varia e molteplice, sia in se stessa un fenomeno assolutamente unico, unitario, escludente qualsiasi altro fenomeno o sub-fenomeno non riducibile a se stesso”.
In un paragone tra Parmenide e gli altri presocratici Cerri asserisce che l’eleate “riteneva che solo l’Ente fosse vero e reale; e che gli enti fossero invece parvenze-opinioni, finzioni create dagli uomini… Ma queste stesse parvenze irreali, costituendo l’esperienza umana di partenza, potevano e dovevano divenire strumento attraverso cui l’intelletto scientifico fosse in grado di ricostruire, passo dopo passo, l’unità del tutto. Le unificazioni scientifiche parziali e provvisorie, matematiche, geometriche, astronomiche, ecc., erano la via necessaria per giungere all’unificazione totale e ultimativa. Perciò Parmenide non può fare a meno di esporle meticolosamente nella seconda parte del poema, che gli antichi presero a intitolare convenzionalmente Doxa, in opposizione alla prima parte, da loro intitolata Aletheia. … La scienza si muove ancora, e continuerà per lungo tempo a muoversi tra gli enti-parvenze-opinioni umane. Le supera a poco a poco in enti-parvenze-opinioni sempre più raffinate, perché più astratte, e perciò più unificanti delle precedenti, dunque sempre più verosimili e sempre meno false. Nel corso stesso di questo lungo cammino, ad un certo punto intuisce la verità-realtà dell’Ente totale e unitario”.

giovedì 2 giugno 2022

L'interpretazione del pensiero parmenideo proposta da Giovanni Cerri - prima parte


Ho trovato l’interpretazione del pensiero parmenideo proposta da Giovanni Cerri, filologo classico, grecista e traduttore, molto convincente nella sua ampia prospettiva che, oltre all'aspetto filosofico, include anche considerazioni scientifiche in senso moderno. Ho quindi deciso di scegliere la sua interpretazione come guida quando mi sono trovato a scrivere le parti del mio nuovo (e ancora inedito) libro che citano il pensiero parmenideo.

Quarta di copertina rielaborata
Cerri critica l’interpretazione, di marca prevalentemente hegeliana e un tempo dominante, che voleva Parmenide "teorico di un essere disincarnato e inaccessibile attraverso l’indagine scientifica del mondo". Propone, in alternativa, "un Parmenide scienziato pienamente consapevole dei fondamenti epistemologici del sapere e capace di prefigurare, attraverso identificazioni progressive di entità apparentemente diverse, l’esito ultimo dell’evoluzione della scienza", cioè la scoperta dell’essere come un unico corpo omogeneo.

Parmenide sarebbe stato il primo ad analizzare l’osservazione dei fenomeni naturali attraverso procedimenti logico-mentali: “punto di partenza della riflessione parmenidea è una ricerca scientifica lunga e laboriosa fondata sulle due componenti della rilevazione sperimentale e del ragionamento matematico-geometrico”.
A conferma della sua interpretazione, Cerri analizza la seconda parte del poema di Parmenide, in cui l’eleate presenta teorie astronomiche, considerate provvisorie dal filosofo stesso, che dimostrerebbero il suo profondo interesse per la spiegazione dei fenomeni del mondo fisico.
 
Cerri mostra anche come le opere di altri due pensatori, formatisi nella scuola di Elea, supporterebbero la sua interpretazione: da una parte Zenone, con le sue argomentazioni contro la pluralità; dall'altro Leucippo, il primo atomista.
In conclusione Cerri risponde anche a dieci studiosi chiamati a discutere la sua interpretazione del pensiero della scuola eleate.

Considerazioni più dettagliate
Cerri pone subito l’accento su quella che a suo avviso è stata a lungo un’interpretazione sbagliata del pensiero di Parmenide. E cioè l’interpretazione hegeliana che attribuiva un valore gerarchico nettamente superiore alla prima parte del poema. Quella che tratta di Aletheia: la verità più profonda che può essere raggiunta solo seguendo il sentiero della ragione. In contrasto con la Doxa: quel livello di verità a cui si accede attraverso l’osservazione sensoriale.
La vulgata hegeliana a cui si accennava ha incoraggiato la visione gerarchica dei due poli in cui quello naturalistico (inconciliabile con l’essere disincarnato) viene a soccombere e a divenire un’appendice secondaria, giustificata come migliore discorso sulle false apparenze umane o al più come opinione dello stesso giovane Parmenide, una concessione ad una sorta di periodo pre-critico dell’Eleate. Così, anche là dove il discorso naturalistico veniva tenuto in considerazione, esso restava pur sempre confinato nella ‘seconda parte’, la cosiddetta Doxa.”

Successivamente altri studiosi, come lo storico della filosofia tedesco Eduard Zeller e il filologo classico e storico scozzese John Burnet, rigettano l’interpretazione puramente ideale dell’essere, perché sarebbe evidente che l’essere per Parmenide sia una realtà che occupa spazio. Burnet si spinge addirittura ad affermare: ‘Parmenides is not, as some have said, ‘the father of idealism’; on the contrary, all materialism depends upon his view of reality’.

Da citare anche la terza via cercata da Giovanni Reale. Lo storico della filosofia italiano nega che Parmenide possa essere considerato padre dell’idealismo o del materialismo, data l’indisponibilità ai suoi tempi delle categorie di materia e spirito.

mercoledì 13 ottobre 2010

Pensiero mattutino: siamo solo microrganismi?

G: (svegliandosi) E se fossimo solo l'avanguardia più avanzata degli innumerevoli microrganismi parassitari che infestano e ammorbano l'epidermide di Pangea - l'unica tra le colonie ad aver raggiunto il possesso dell'autoconsapevolezza e degli strumenti per interrogarsi sul senso della propria esistenza - e che il sistema immunitario dell'organismo Pangea cerca di sconfiggere usando quello che noi chiamiamo catastrofi naturali? Terremoti, eruzioni, tornado, inondazioni non sarebbero altro che i leucociti di Pangea.

F: (guardandolo tra il perplesso e l'annoiato) ch'ha magnato ieri sera Gianfra'?