domenica 2 giugno 2024

Maieutica e duplicazione del quadrato - terza parte

 Continua da Pitagora e dintorni: Maieutica e duplicazione del quadrato - seconda parte


Atene, gennaio 386 a.C.

«Allora», riprese Teeteto, «proviamo a disegnare daccapo questi quattro quadrati», disse mentre tracciava una copia semplificata del precedente schema. «E ora aggiungiamo quattro linee da angolo ad angolo di ognuno dei quattro quadrati piccoli».

«Adesso dimmi: queste quattro linee non tagliano in due ognuna di queste quattro aree?».

«Sì, mi sembra che le tagliano in due».

«E questi quattro lati uguali che figura formano?», chiese Teeteto mentre muoveva il bastoncino circolarmente lungo il perimetro della nuova figura interna.

«Non capisco la domanda, signore».

«Non si chiama quadrato la figura con quattro lati uguali?».

«Certo, signore».

«Quanto è grande, allora, l’area di questo quadrato interno?».

«Non lo so», scosse la testa Menone.

«Rifletti», lo spronò Teeteto. «Non abbiamo detto che ogni linea ha diviso a metà questi quattro quadrati piccoli?».

«Sì».

«Ricordi quanto misurava l’area di quei quadrati piccoli, che poi erano una copia del quadrato iniziale?».

«Quattro piedi, signore».

«Quanto misureranno, dunque, quelle metà?».

«Due piedi».

«E quante di queste metà riempiono l’interno di questo nuovo quadrato obliquo?».

«Quattro, signore».

«L’area di quel quadrato non misurerà allora quattro volte due piedi?».

«Certo… otto piedi… ma allora è questo!», gridò Menone dopo averci pensato un istante. «È questo il quadrato di area doppia che cercavamo!», esultò guardando gioioso Teeteto ed Eudosso.

Come uno specchio deformante, il volto di Teeteto trasformò il sorriso d’entusiasmo in un ghigno di rivalsa e lo proiettò verso Eudosso.

«Sapresti indicarmi qual è il lato di quel quadrato?», intervenne Platone.

«Questo, signore», rispose Menone avvicinando il dito a una delle quattro linee oblique.

«Cioè la linea tesa da angolo ad angolo dell’area di quattro piedi?».

«Sì, quella».

«Sappi che quella linea si chiama diagonale del quadrato. Dunque abbiamo appurato che la diagonale di un quadrato genera un quadrato di area doppia rispetto al quadrato iniziale, giusto?».

«Giusto».

«Ora dimmi se non abbiamo assistito a un prodigio», chiese Platone rivolgendosi a Eudosso. «Trovi che qualche opinione espressa da Menone non fosse sua?».

«No», rispose Eudosso, «ma…».

«Ma?», replicò Teeteto con un tono di sfida.

«Sei stato tu a tracciare le diagonali. Lui, da solo, non ci sarebbe mai arrivato».

«Questa è l'arte della maieutica!», sentenziò Platone. «Prevede la presenza di una guida. O, come preferiva dire Socrate, di una levatrice che agevoli la rinascita delle idee che giacciono dormienti nel profondo dell’anima. L’anima è immortale e rinasce più volte. E nel suo lungo ciclo di reincarnazioni ha già visto tutto, sia nel mondo dei vivi sia nell’Ade. E non c’è niente che essa non abbia già imparato. Non dovremmo dunque meravigliarci se è capace di ricordare ciò che già sapeva». Eudosso contemplava il maestro. Ora la sua barba era quasi totalmente imbiancata dai fiocchi di neve che cadevano più intensi. «Il metodo di Socrate prevede domande e risposte tra maestro e allievo, e procede per eliminazione delle risposte contraddittorie o irragionevoli. E può far anche emergere l’infondatezza di verità che diamo per scontate, declassificandole al loro vero ruolo di opinioni. È così che l'allievo viene indotto ad accorgersi della propria ignoranza e a discernere le verità dalle false presunzioni».

«Sì, ma le diagonali…», ribadì Eudosso con gli occhi che tradivano un barlume di incertezza.

«Il suggerimento di Teeteto sulle diagonali rientra perfettamente nel metodo della maieutica», dichiarò Platone apodittico.

Il giovane tacque. Osservò un nuovo scambio di sguardi tra Platone e Teeteto. Si rese conto che non era più il caso di insistere su quella linea.

«Ho capito», disse infine abbassando la testa.

«Bene», disse il maestro scrollandosi un po’ di neve dalla barba. «Credo che sia arrivato il momento di rientrare a casa».

In quel momento Eudosso non immaginava quanto quella conversazione avrebbe influenzato il suo futuro.

domenica 28 aprile 2024

Maieutica e duplicazione del quadrato - seconda parte

Continua da Pitagora e dintorni: Maieutica e duplicazione del quadrato - prima parte

Atene, gennaio 386 a.C.

...«E ora sta’ a vedere come ricorderà le cose che deve ricordare», disse Teeteto in tono di sfida. «Dimmi, Menone», riprese, «tu dici che dal lato doppio si genera l’area doppia, ma avere il lato doppio non significa che raddoppiamo solo uno dei quattro lati, significa che li raddoppiamo tutti e quattro, perché la figura risultante dovrà essere ancora un quadrato. Pensaci bene, a tuo parere, l’area di otto piedi risulterà dal lato di quattro piedi?».

«A me…», rispose Menone dopo qualche istante «sembra così», concluse sempre più intimorito mentre Eudosso reprimeva una risata sotto lo sguardo severo di Platone.

«Allora», fece Teeteto paziente aspirando profondamente, «aggiungiamo una linea della stessa lunghezza del lato a partire da qui», continuò mentre tracciava la linea a partire da un vertice del quadrato.

«Che lunghezza avrà la linea risultante formata dalle due linee?»

«Beh, il doppio»

«Bravo», disse Teeteto. Un lieve sorriso allentò un po’ di tensione dal volto di Menone. «Dunque è dal quadrato che ha questa linea per lato che tu pensi risulterà l’area di otto piedi?», chiese Teeteto muovendo il bastoncino lungo il lato raddoppiato.

«A me… pare così», confermò il ragazzo di nuovo titubante.

L’occhiata preventiva di Platone frenò ogni possibile espressione di Eudosso.

«Tracciamo dunque quattro lati uguali a partire dal lato raddoppiato», disse Teeteto disegnando il quadrato di lato quattro piedi.

«Sarebbe questa l’area che tu dici essere di otto piedi?»

«Credo di sì».


«E vedi che quest’area è composta da questi quattro quadrati, ognuno dei quali è uguale a quello iniziale di area quattro piedi?», chiese Teeteto raddoppiando anche gli altri due lati del quadrato piccolo.

«Sì, lo vedo».

«Dunque l’area totale non è il quadruplo di quella iniziale?».

«Sicuramente!».

«Ma prima avevi detto che quest’area era il suo doppio. Allora il doppio è uguale al quadruplo?».

«No, per Zeus! Mi sbagliavo», si affrettò a dire Menone. «È il quadruplo non il doppio». Il volto di Eudosso si contrasse.

«Quindi abbiamo appurato che dal lato doppio risulta un’area non doppia ma quadrupla», sottolineò Teeteto lanciando uno ghigno verso Eudosso.

«È vero!», ammise il ragazzo rincuorato.

«E quattro volte quattro fa sedici, no?», continuò Teeteto.

«Sì».

«Ma allora, da quale lato risulta, invece, un’area di otto piedi?» Menone lo guardava pensoso. «Non risulterà da un lato maggiore di questo e da un lato minore di quest’altro?», chiese Teeteto passando il bastoncino sul lato di due piedi e poi su quello di quattro.

«Beh… mi sembra di sì».

«E quindi non è vero che l’area di otto piedi dovrà essere compresa tra queste due aree?», incalzò Teeteto muovendo il bastoncino sul primo quadrato piccolo e poi su quello grande.

«Certo che è vero!», rispose convinto il ragazzo.

«Prova, allora, a dire quanto potrebbe essere lungo il lato di quel quadrato», lo sollecitò.

«Uhm», fece Menone. «Forse tre piedi?».

Eudosso scosse la testa. “Non troverà mai la risposta giusta “, pensò. Ma, visto l’atteggiamento del maestro, si guardò bene dall’esprimere quel pensiero.

«Allora», sospirò Teeteto. «Se quel lato fosse di tre piedi, lo costruiremmo aggiungendo un piede al lato di due piedi, giusto?».

«Giusto».

Teeteto tracciò una linea più marcata lunga tre piedi, scrisse un tre e costruì il corrispondente quadrato.

«Ah!» esclamò Menone schiaffeggiandosi la fronte. «Quel lato non può essere lungo tre piedi, perché l’area del quadrato che avete tracciato misura tre volte tre. Quindi nove e non otto».

Teeteto lanciò un nuovo sorrisino in direzione di Eudosso.

«Ma quanto misura allora questo maledetto lato!», starnazzò Eudosso spazientito.

«Non lo so, per Zeus! Non lo so!», fece Menone sconfortato. «Fa freddo! Lasciatemi tornare al lavoro».

«Calma, non scoraggiarti», disse Teeteto mentre Platone rimproverava nuovamente Eudosso.

«Vedi Eudosso», aggiunse poi Platone, «quanto stiamo osservando è un percorso in cui il giovane Menone acquista man mano la consapevolezza di ciò che crede di sapere e ciò che crede di non sapere e, al contempo, si riconnette con i suoi ricordi». La neve ricominciò a scendere rada dal cielo e qualche fiocco si posò sulla barba del maestro amplificandone le striature bianche.

«Uhm», muggì l’allievo.

«Non credi che abbia fatto progressi nel passare tra il pensare di sapere quale sia la lunghezza del lato di un quadrato di otto piedi di area ed essere consapevole di non saperlo?».

«Sì», ammise Eudosso.

«Allora», riprese Teeteto, «proviamo a disegnare daccapo questi quattro quadrati», disse mentre tracciava una copia semplificata del precedente schema. «E ora aggiungiamo quattro linee da angolo ad angolo di ognuno dei quattro quadrati piccoli».

Continua …

mercoledì 10 aprile 2024

Il mistero della discesa infinita a Palermo

Pubblico qualche foto della presentazione palermitana de Il mistero della discesa infinita in collaborazione con Luigi Menna nell'ambito della manifestazione Esperienza inSegna - manifestazione scientifica organizzata da Palermo Scienza.
 
Coinvolgere e incoraggiare studenti è una delle esperienze più gratificanti.
E quella con gli studenti del liceo musicale di Palermo è stata tra le più gratificanti. Grazie a Luigi Menna e  Palermo Scienza.







Maieutica e duplicazione del quadrato - prima parte

 

Atene, gennaio 386 a.C.

Quel mattino Eudosso si svegliò con una strana sensazione. Era quel freddo intenso che lo inquietava? O forse quel silenzio assoluto? Non sentiva il solito scalpitio che saliva dalla strada. A un tratto percepì grida lontane. Sembravano bambini. Apri la finestra e rimase senza fiato. Tutto era bianco. La strada, le case, gli alberi. Da alcuni tetti pendevano strane formazioni, come coni capovolti di un colore bianco semitrasparente. Deve essere la neve! “Dev'essere la neve!”, pensò. Lui non l’aveva mai vista. Ma gliene aveva parlato sua madre. L’ultima volta era caduta a Cnido prima che lui nascesse. Indossò velocemente chitone e imatio, e scese in strada.

Quel giorno, durante la lezione, Platone aveva chiesto a Eudosso di mostrare agli altri come costruire un quadrato di area doppia rispetto a un quadrato dato.

«È semplicissimo», aveva esordito il giovane. E si era immerso nei passi della costruzione mostrando molta destrezza con la matematica ma non altrettanta con la chiarezza dell’esposizione. Alla fine Eudosso parve compiaciuto nel vedere espressioni di smarrimento nella maggior parte degli scolari. Sembrava assaporare con gusto quel momento. Era una rivalsa sulle insolenze subite. Ma osservò anche uno scambio di occhiate tra Platone e Teeteto.

Mentre gli scolari defluivano dall’aula Teeteto lo raggiunse.

«Vogliamo fare un po’ di strada insieme?».

«Volentieri», rispose Eudosso ancora euforico.

«Mi unirò anch’io», disse Platone mentre i due giovani si incamminavano.

La neve aveva smesso di cadere e le nuvole, un po’ diradate, lasciavano filtrare a tratti flebili raggi di sole attraverso il cielo. Infastidito dal gioco mutevole di luce e riflessi, Eudosso volse lo sguardo verso la zona meno abbagliante e notò che il piazzale di fronte alla scuola era ormai quasi completamente sgombro. La maggior parte degli schiavi si stava concedendo una pausa e solo alcuni dei più giovani erano rimasti a lavorare.

«Non credo che molti abbiano capito la mia spiegazione», fece Eudosso con un ghigno.

Di nuovo quello scambio di sguardi.

«Vedi Eudosso…», esordì Teeteto con un’espressione severa, «il compianto maestro Socrate ci ha insegnato che il buon filosofo comunica il proprio pensiero in modo chiaro e comprensibile. Anzi», sottolineò con enfasi, «Socrate si è spinto oltre, affermando che non dovremmo neppure spiegare il nostro pensiero. Lui non si riteneva un sapiente, non pensava di avere una verità da trasmettere agli altri né di essere in grado di insegnare qualcosa. Ma credeva di avere la capacità di aiutare gli allievi a far riemergere la loro sapienza inconsapevole», disse scandendo l’ultima parola. «Il maestro amava usare la metafora della levatrice, visto che sua madre era una di esse. “Così come le levatrici aiutano le donne a dar luce al frutto della loro procreazione, io assisto le anime degli scolari a partorire idee fertili”, diceva. E per onorare quel parallelo chiamò maieutica quel suo metodo per far affiorare la verità dai suoi scolari inconsapevoli»

«Non ho capito. Socrate non si riteneva sapiente?! E se non lo era lui, chi può esserlo?!»

«Eppure lui ne era convinto. E noi dovremmo trarne insegnamento», disse Teeteto con foga.

«Socrate diceva di non essere sapiente e di non essere stato capace di partorire nessuna scoperta», intervenne Platone con tono pacato, forse per stemperare gli animi. «Ma aggiungeva che, chi lo frequentava, anche se incolto, ne traeva giovamenti sorprendenti, scoprendo cose straordinarie che prima non avrebbe neppure immaginato».

«Capisco», fece Eudosso conciliante, «ma non mi è chiaro che significhi far riemergere la sapienza inconsapevole».

«Significa che chiunque, se ben guidato, può arrivare a ricostruire conoscenze anche complesse!», disse Teeteto. «Significa che anche quel giovane servitore, ricevendo l’orientamento necessario, sarebbe in grado di ricostruire la duplicazione del quadrato!», sottolineò con enfasi mentre indicava uno dei giovani intenti a spalare la neve.

«Impossibile!», sbraitò Eudosso diffondendo una piccola nube di fiato condensato innanzi a sé.

«Vogliamo provare?», lo sfidò Teeteto.

«Ma è inutile provare! Non ci riuscirebbe mai!»

«Vedo che hai paura di perdere»

«No, è che non voglio vincere in modo troppo facile… ma se proprio ci tieni…»

Teeteto si precipitò a prelevare il giovane mentre Platone continuava a osservare in silenzio la scena. Sembrava sorpreso e un po’ divertito da tanta passione giovanile. Frattanto le nubi avevano ricominciato a ispessirsi.

«Come ti chiami?», chiese Teeteto.

«Menone, signore».

«Spostiamoci lì dove c’è ancora neve fresca», li invitò Teeteto mentre raccoglieva un bastoncino sufficientemente dritto.

«Ascolta, Menone, sai che un’area quadrata è fatta così?», cominciò mentre tracciava un quadrato sulla neve. «È un’area quadrangolare delimitata da quattro linee uguali».

«Sì, lo so»

«Se dunque questo lato fosse di due piedi e di due piedi questo, quanti piedi misurerebbe l’area?», disse mentre aggiungeva il numero vicino a uno dei lati.

«Quattro, signore».

«E non potrebbe esistere un quadrato con un’area che sia il doppio di questa?»

«Sì, certo».

«Quanti piedi misurerebbe?»

«Otto, signore».

«Bene, ora stai molto attento, prova a dirmi quanto sarebbe la lunghezza del lato di quel quadrato con area di otto piedi. Il lato di questa è di due piedi: quanto sarà il lato di quell’area doppia?»

«Beh, signore, sarà il doppio».

Eudosso scoppiò in una fragorosa risata. «Lato di quattro piedi e area di otto piedi!», disse mentre continuava a ridere dimenandosi e agitando le braccia. Alcuni schiavi in lontananza si voltarono a guardare il gruppetto.

«Non badare a lui», disse Teeteto rassicurante mentre il giovane Menone guardava Eudosso intimorito. «Ma rifletti ancora sulla mia domanda. Quanto sarà la lunghezza di ogni lato di quell’area di otto piedi? Il lato di quest’area di quattro piedi è di due piedi», disse muovendo il bastoncino sul quadrato tracciato nella neve, «quanto sarà il lato di quell’area doppia?»

«Beh», fece Menone esitante, «a me sembra proprio il doppio».

Eudosso riprese a ridere ancor più rumorosamente. Stavolta si voltarono anche alcuni scolari.

«Eudosso», intervenne Platone, «cerca di contenere il tuo sarcasmo». Il giovane a abbassò gli occhi. «Teeteto sta cercando di usare il metodo della maieutica», continuò il maestro. «Si limita a guidare Menone ponendogli domande per far riemergere la sua conoscenza, senza insegnargli nulla direttamente». Eudosso rialzò lo sguardo verso il maestro. «Abbiamo appena visto che Menone pensa di sapere quale sia la lunghezza del lato di un quadrato di otto piedi di area, giusto?».

«Giusto», ammise Eudosso incupito.

«E dunque, se pensa di saperlo credi che lo sappia davvero?».

«Non credo», disse l’allievo un po’ rinvigorito.

«E ora sta’ a vedere come ricorderà le cose che deve ricordare», disse Teeteto in tono di sfida.

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domenica 28 gennaio 2024

Vincenzo Fano − I paradossi di Zenone − quarta parte − spazio e tempo sono densi? - Weierstrass e Russell


Come già scritto, il libro I paradossi di Zenone di Vincenzo Fano è stato fondamentale nel percorso di ricerca per il mio terzo libro, Il mistero della discesa infinita. Oltre ai già citati Giovanni Cerri e Gustavo E. Romero, l'opera di Fano è stata una risorsa di inestimabile valore, svolgendo un ruolo chiave nell'approfondimento del pensiero di Zenone in relazione al moderno pensiero scientifico, matematico e filosofico.

Qui continuerò la sintesi delle premesse di Fano per affrontare le interpretazioni di Bertrand Russell del paradosso della dicotomia (che si basano sui risultati dei matematici CantorDedekindWeierstrass e Peano).

Dicevamo che, dopo aver mostrato come Brouwer affronta matematicamente la questione già sottolineata da Aristotelee cioè che un insieme di elementi discreti non può rappresentare il continuo geometrico o intuitivo, Fano analizza uno dei dilemmi che sono alla base di almeno due dei paradossi di ZenoneSe lo spazio fisico sia o no un insieme denso di punti.

Fano cita un'idea di Grünbaum (Modern Science and Zeno's Paradoxes, p. 44), secondo cui, quando si propone un ipotesi matematicamente esatta sulla natura di un oggetto reale, è opportuno confrontare tale ipotesi con la percezione. Infatti, anche se la percezione è parzialmente illusoria, essa è la prima nostra fonte di conoscenza e quindi va rispettata.
Tuttavia, un continuo spaziale percepito, come ad esempio un tratto di matita nera su un foglio bianco, non viene colto come un insieme denso di punti. Certo possiamo definire in esso dei minimi percepibili, considerando che la percezione visiva spaziale possiede una soglia.
Quindi potremmo anche dire che esso è in potenza formato da un insieme finito e discreto di minimi percepibili. Ma tali minimi non risultano evidenti. Possiamo quindi affermare, con Grünbaum, che la percezione non testimonia contro l'affermazione che lo spazio sia composto da un insieme denso di punti, sebbene non testimoni neanche a favore di questa tesi.

L'argomento più forte a favore del fatto che lo spazio fisico sia composto da un insieme denso di punti, afferma poi Fano, è, invece, il successo delle attuali teorie fisiche
meccanica classica, meccanica quantistica, relatività ristretta e generale, elettromagnetismo, elettrodinamica quantistica e modello standard. Tutte queste teorie presuppongono uno spazio fisico densoper cui, se abbracciamo una forma di realismo scientifico, anche moderato, arriviamo alla conclusione che, per quanto ne sappiamo, lo spazio fisico è denso. Il realismo scientifico moderato, infatti, afferma che le migliori spiegazioni di un dato dominio di oggetti sono almeno in parte vere anche riguardo a ciò che non è osservabile. Dunque è ragionevole supporre che lo spazio fisico sia effettivamente denso.

La densità del tempo 
Ma una tale supposizione può essere valida pure per il tempo? In "I paradossi di Zenone − seconda parte − I contributi di Aristotele al paradosso della dicotomia" abbiamo visto che la soluzione aristotelica del paradosso si basava sull'infinità divisibilità del tempo.

Così come per il caso dello spazio, Fano prende in considerazione un esempio concreto. Per lo spazio aveva considerato un tratto di matita e per il tempo considera una palla che si muove su di un tavolo da biliardo
Ora non abbiamo più un oggetto statico come il tratto di matita ma un oggetto in movimento.

Fano considera le due diverse concezioni del movimento: la cosiddetta teoria at-at, solitamente attribuita a Bertrand Russell, per cui essere in movimento significa “essere in luoghi diversi in istanti diversi. E quella aristotelica, secondo la quale il movimento è "l’atto di ciò che è in potenza in quanto in potenza" (Fisica, 201a: 10-11 e 201b, 4-5).

La prima è una teoria precisa e, di fatto, accettata dalla maggior parte degli studiosi. Tuttavia è non solo poco intuitiva, ma anche problematica, perché implica, come si vedrà, una radicale forma di indeterminismo. La seconda, invece, è oscura, ma rende certamente meglio l'idea del movimento come qualcosa di non rappresentabile in modo completo nello spazio e nel tempo.

Per fare un esempio, la teoria at-at afferma che se Gianna alle 15:20 è in camera sua e alle 15.21 è in cucina, allora si è mossa. Per Bergson (1889, pp. 64 70) questo non è il movimento, ma "il già mosso"; cioè un fatto compiuto. In effetti, se Gianna sparisse dalla sua stanza alle 15:20 e ricomparisse in cucina alle 15:21 non potremmo dire che fra le 15:20 e le 15:21 si stava muovendo, possiamo al massimo dire che si è mossa, cioè che non è più nello stesso luogo.

Per Aristotele, invece, il movimento implica necessariamente un'analisi ontologica in termini di ciò che è attuale e di ciò che è potenziale. In prima approssimazione potremmo dire che il movimento è l’attualità di una potenzialità. Ad esempio, Gianna nella sua camera porrebbe andare in cucina, e fra le 15.20 e le 15.21 realizza questa possibilità. Se questa fosse stata la definizione aristotelica di movimento, di nuovo faremmo confusione con il già mosso, cioè il passaggio dalla potenza all'atto sarebbe solo un modo ontologicamente diverso di descrivere qualcosa di simile a quello che racconta la teoria at-at. È forse per questa ragione che Aristotele aggiunge quella strana postilla: il movimento è l'attualità di una potenzialità in quanto in potenza. Infatti quel "in quanto in potenza" sta a indicare che non stiamo parlando di '"già mosso", ma di movimento, cioè questo passaggio deve contenere in sé ancora potenzialità, ossia deve essere qualcosa di incompleto (Brentano, 1862, pp. 52 ss.; Kostman, 1987; Ross, 1936, p.-dl.).
Tutto ciò è molto interessante, ma irrimediabilmente impreciso.

Fano propone quindi un miglioramento della teoria at-at del movimento dicendo che la palla da biliardo è in moto in un certo istante se, preso un lasso di tempo Δtε piccolo a piacere, che comprenda t, in istanti diversi di Δtε essa si trova in luoghi diversi. In pratica, affinché ci sia movimento, deve esserci continuità del moto. In questo modo, usando una procedura ispirata al metodo rigoroso di Weierstrass, abbiamo reso un po’ più intuitiva la teoria at-at. Infatti per affermare che la palla si muova nel lasso di tempo Δtε è necessario che si muova in tutti gli istanti che appartengono a Δt.
Vedremo che questa definizione lascia dei problemi aperti, però è probabilmente il meglio che siamo riusciti a fare a tutt’oggi, grazie al genio di Weierstrass.

Secondo molti autori (Whitehead e Grünbaum), tuttavia, il tempo percepito, a differenza dello spazio, sarebbe discontinuo.

Ma secondo Fano sembra più naturale affermare che, così come nel caso dello spazio, la continuità o discontinuità della temporalità dipenda dalla struttura percettiva di ciò che stiamo percependo: cioè se percepiamo il movimento della palla da biliardo la sua temporalità sarà continua mentre se stiamo percependo il battito del nostro cuore la temporalità sarà discontinua.
Questa tesi è confermata anche dai più recenti studi di psicologia cognitiva(Fingelkurts 2006). Inoltre, anche in questo caso le migliori teorie fisiche presuppongono che il tempo sia denso; perciò abbiamo buone ragioni per ritenerlo tale.

Fano conclude quindi che, una volta accertata la densità dello spazio, siamo naturalmente portati ad assumere anche quella del tempo.

L'autore si immerge quindi nella problema considerando la spazializzazione e la misurabilità del tempo. Questioni che affronteremo nella prossima puntata.