Visualizzazione post con etichetta fisica. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta fisica. Mostra tutti i post

sabato 3 maggio 2025

Gabriele Lolli e l’irragionevole efficacia della matematica nella fisica

In Gabriele Lolli: la matematica è consolidata, stabile e cumulativa? abbiamo visto come Lolli cerca di definire che cosa si intenda per “matematica” e riflette sulla visione che la vuole consolidata, stabile e cumulativa.
Qui riporterò il pensiero di Lolli sul celebre tema dell’irragionevole efficacia della matematica nella fisica.

"I matematici sono condotti dal loro senso della bellezza matematica a sviluppare strutture formali che i fisici in seguito trovano utili, anche quando i matematici non avevano per nulla in mente una tale finalità. (Steve Weinberg)

Naturalmente tale riconoscimento comporta meraviglia e incredulità, continua Weinberg: [...] I fisici in generale trovano che la capacità dei matematici di anticipare la matematica che abbisogna nelle teorie fisiche è fortemente misteriosa [uncanny].

Come se Neil Armstrong nel 1969 quando per primo mise piede sulla superficie della luna avesse trovato nella polvere lunare le impronte lasciate da Jules Verne. Eppure succede; è un fatto documentabile che spesso nella storia i matematici hanno studiato oggetti che al momento non si pensava e non ci si preoccupava di riconoscere che avessero un riscontro nella natura o in altre scienze, dalle coniche di Apollonio di Perga (262-190) al calcolo tensoriale di Gregorio Ricci Curbastro (1853-1925) e Tullio Levi-Civita (1873-1941), offerto poi su un piatto d’argento a Albert Einstein (1879-1955) per la teoria della relatività generale.

Gli esempi che si fanno riguardano sempre concetti e teorie che dopo si sono rivelate utili, ed è naturale perché non si può individuare un argomento di matematica di cui si possa dire che non sarà mai utile, non si ha preveggenza. Tuttavia non è facile neppure trovare qualche ricerca importante che per adesso non si sia dimostrata utile. L’argomento sarà da sviluppare a parte, perché riguarda anche, o piuttosto, il modo come è cambiata la fisica; la fisica era studiata già da Aristotele, ma ovviamente altra cosa è la fisica che ha iniziato a usare la matematica; essa ha incominciato con la matematica che era disponibile, naturalmente, facendola così apparire precorritrice. Il caso delle coniche ne è un esempio. Vero è che anche prima forme geometriche, almeno le sfere, erano usate nella cosmologia, ma quelle sfere celesti forse non si dovrebbero considerare enti matematici. Infatti coloro che conoscono e praticano l’aritmetica e la geometria, secondo Aristotele, nella Metafisica, giungono, a suo avviso, a risultati eccellenti “ponendo come separato ciò che non lo è”. Porre “come separato ciò che non lo è” è il modo di Aristotele di intendere la differenza tra i concetti matematici e le cose reali che sono oggetto ciascuna di altre discipline; per esempio considerando una sfera come la superficie matematica “separata” di una palla si può dire che essa ha un solo punto di contatto con un piano tangente su cui giace, a differenza della palla stessa, anche se ben gonfiata. … Poi nell’epoca del calcolo infinitesimale la matematica entra nella fisica con le equazioni differenziali e la ricerca matematica e fisica procede per un po’ in simbiosi, ma guidata dalla matematica–“l’equazione alle derivate parziali è entrata nella fisica teorica come un’ancella, ma gradualmente è diventata padrona”, diceva Einstein. Un momento di crisi sarà quello in cui nasce la matematica pura, nei primi decenni dell’Ottocento, e le due discipline sembrano andare ognuna per la sua strada."

domenica 28 gennaio 2024

Vincenzo Fano − I paradossi di Zenone − quarta parte − spazio e tempo sono densi? - Weierstrass e Russell


Come già scritto, il libro I paradossi di Zenone di Vincenzo Fano è stato fondamentale nel percorso di ricerca per il mio terzo libro, Il mistero della discesa infinita. Oltre ai già citati Giovanni Cerri e Gustavo E. Romero, l'opera di Fano è stata una risorsa di inestimabile valore, svolgendo un ruolo chiave nell'approfondimento del pensiero di Zenone in relazione al moderno pensiero scientifico, matematico e filosofico.

Qui continuerò la sintesi delle premesse di Fano per affrontare le interpretazioni di Bertrand Russell del paradosso della dicotomia (che si basano sui risultati dei matematici CantorDedekindWeierstrass e Peano).

Dicevamo che, dopo aver mostrato come Brouwer affronta matematicamente la questione già sottolineata da Aristotelee cioè che un insieme di elementi discreti non può rappresentare il continuo geometrico o intuitivo, Fano analizza uno dei dilemmi che sono alla base di almeno due dei paradossi di ZenoneSe lo spazio fisico sia o no un insieme denso di punti.

Fano cita un'idea di Grünbaum (Modern Science and Zeno's Paradoxes, p. 44), secondo cui, quando si propone un ipotesi matematicamente esatta sulla natura di un oggetto reale, è opportuno confrontare tale ipotesi con la percezione. Infatti, anche se la percezione è parzialmente illusoria, essa è la prima nostra fonte di conoscenza e quindi va rispettata.
Tuttavia, un continuo spaziale percepito, come ad esempio un tratto di matita nera su un foglio bianco, non viene colto come un insieme denso di punti. Certo possiamo definire in esso dei minimi percepibili, considerando che la percezione visiva spaziale possiede una soglia.
Quindi potremmo anche dire che esso è in potenza formato da un insieme finito e discreto di minimi percepibili. Ma tali minimi non risultano evidenti. Possiamo quindi affermare, con Grünbaum, che la percezione non testimonia contro l'affermazione che lo spazio sia composto da un insieme denso di punti, sebbene non testimoni neanche a favore di questa tesi.

L'argomento più forte a favore del fatto che lo spazio fisico sia composto da un insieme denso di punti, afferma poi Fano, è, invece, il successo delle attuali teorie fisiche
meccanica classica, meccanica quantistica, relatività ristretta e generale, elettromagnetismo, elettrodinamica quantistica e modello standard. Tutte queste teorie presuppongono uno spazio fisico densoper cui, se abbracciamo una forma di realismo scientifico, anche moderato, arriviamo alla conclusione che, per quanto ne sappiamo, lo spazio fisico è denso. Il realismo scientifico moderato, infatti, afferma che le migliori spiegazioni di un dato dominio di oggetti sono almeno in parte vere anche riguardo a ciò che non è osservabile. Dunque è ragionevole supporre che lo spazio fisico sia effettivamente denso.

La densità del tempo 
Ma una tale supposizione può essere valida pure per il tempo? In "I paradossi di Zenone − seconda parte − I contributi di Aristotele al paradosso della dicotomia" abbiamo visto che la soluzione aristotelica del paradosso si basava sull'infinità divisibilità del tempo.

Così come per il caso dello spazio, Fano prende in considerazione un esempio concreto. Per lo spazio aveva considerato un tratto di matita e per il tempo considera una palla che si muove su di un tavolo da biliardo
Ora non abbiamo più un oggetto statico come il tratto di matita ma un oggetto in movimento.

Fano considera le due diverse concezioni del movimento: la cosiddetta teoria at-at, solitamente attribuita a Bertrand Russell, per cui essere in movimento significa “essere in luoghi diversi in istanti diversi. E quella aristotelica, secondo la quale il movimento è "l’atto di ciò che è in potenza in quanto in potenza" (Fisica, 201a: 10-11 e 201b, 4-5).

La prima è una teoria precisa e, di fatto, accettata dalla maggior parte degli studiosi. Tuttavia è non solo poco intuitiva, ma anche problematica, perché implica, come si vedrà, una radicale forma di indeterminismo. La seconda, invece, è oscura, ma rende certamente meglio l'idea del movimento come qualcosa di non rappresentabile in modo completo nello spazio e nel tempo.

Per fare un esempio, la teoria at-at afferma che se Gianna alle 15:20 è in camera sua e alle 15.21 è in cucina, allora si è mossa. Per Bergson (1889, pp. 64 70) questo non è il movimento, ma "il già mosso"; cioè un fatto compiuto. In effetti, se Gianna sparisse dalla sua stanza alle 15:20 e ricomparisse in cucina alle 15:21 non potremmo dire che fra le 15:20 e le 15:21 si stava muovendo, possiamo al massimo dire che si è mossa, cioè che non è più nello stesso luogo.

Per Aristotele, invece, il movimento implica necessariamente un'analisi ontologica in termini di ciò che è attuale e di ciò che è potenziale. In prima approssimazione potremmo dire che il movimento è l’attualità di una potenzialità. Ad esempio, Gianna nella sua camera porrebbe andare in cucina, e fra le 15.20 e le 15.21 realizza questa possibilità. Se questa fosse stata la definizione aristotelica di movimento, di nuovo faremmo confusione con il già mosso, cioè il passaggio dalla potenza all'atto sarebbe solo un modo ontologicamente diverso di descrivere qualcosa di simile a quello che racconta la teoria at-at. È forse per questa ragione che Aristotele aggiunge quella strana postilla: il movimento è l'attualità di una potenzialità in quanto in potenza. Infatti quel "in quanto in potenza" sta a indicare che non stiamo parlando di '"già mosso", ma di movimento, cioè questo passaggio deve contenere in sé ancora potenzialità, ossia deve essere qualcosa di incompleto (Brentano, 1862, pp. 52 ss.; Kostman, 1987; Ross, 1936, p.-dl.).
Tutto ciò è molto interessante, ma irrimediabilmente impreciso.

Fano propone quindi un miglioramento della teoria at-at del movimento dicendo che la palla da biliardo è in moto in un certo istante se, preso un lasso di tempo Δtε piccolo a piacere, che comprenda t, in istanti diversi di Δtε essa si trova in luoghi diversi. In pratica, affinché ci sia movimento, deve esserci continuità del moto. In questo modo, usando una procedura ispirata al metodo rigoroso di Weierstrass, abbiamo reso un po’ più intuitiva la teoria at-at. Infatti per affermare che la palla si muova nel lasso di tempo Δtε è necessario che si muova in tutti gli istanti che appartengono a Δt.
Vedremo che questa definizione lascia dei problemi aperti, però è probabilmente il meglio che siamo riusciti a fare a tutt’oggi, grazie al genio di Weierstrass.

Secondo molti autori (Whitehead e Grünbaum), tuttavia, il tempo percepito, a differenza dello spazio, sarebbe discontinuo.

Ma secondo Fano sembra più naturale affermare che, così come nel caso dello spazio, la continuità o discontinuità della temporalità dipenda dalla struttura percettiva di ciò che stiamo percependo: cioè se percepiamo il movimento della palla da biliardo la sua temporalità sarà continua mentre se stiamo percependo il battito del nostro cuore la temporalità sarà discontinua.
Questa tesi è confermata anche dai più recenti studi di psicologia cognitiva(Fingelkurts 2006). Inoltre, anche in questo caso le migliori teorie fisiche presuppongono che il tempo sia denso; perciò abbiamo buone ragioni per ritenerlo tale.

Fano conclude quindi che, una volta accertata la densità dello spazio, siamo naturalmente portati ad assumere anche quella del tempo.

L'autore si immerge quindi nella problema considerando la spazializzazione e la misurabilità del tempo. Questioni che affronteremo nella prossima puntata.

mercoledì 1 novembre 2023

Vincenzo Fano − I paradossi di Zenone − terza parte − Bertrand Russell: spazio e tempo sono infinitamente divisibili?


Come già menzionato, il libro I paradossi di Zenone di Vincenzo Fano è stato fondamentale nel percorso di ricerca per il mio terzo libro, Il mistero della discesa infinita. Oltre ai già citati Giovanni Cerri e Gustavo E. Romero, l'opera di Fano è stata una risorsa inestimabile svolgendo un ruolo chiave nell'approfondimento del pensiero di Zenone in relazione al moderno pensiero scientifico, matematico e filosofico. 

Qui presenterò una sintesi delle premesse di Fano per affrontare le interpretazioni di Bertrand Russell del paradosso della dicotomia (che si basano sui risultati dei matematici Cantor, Dedekind, Weierstrass e Peano).

Premesse alla soluzione di Russell

Prima di tutto bisogna distinguere tra infinita divisione e infinita divisibilità. Abbiamo visto che Aristotele distingue i due concetti attraverso la differenza tra in potenza e in atto. Mentre noi dobbiamo ragionare in modo diverso, date le difficoltà nel tentare di definire il concetto di "in potenza" in modo rigoroso secondo il nostro moderno pensiero razionale.

Infinita divisibilità1

Da Cantor in poi si interpreta l’infinita divisibilità di un segmento di spazio come l’affermazione che esso è costituito da un insieme infinito e non numerabile di punti. Ma questa interpretazione comporta una rivoluzione completa rispetto alla concezione aristotelica e non solo, secondo la quale l’infinito può esistere solo in potenza, poiché qui si parla di infinito in atto.
Invece, se volessimo restare nello spirito dell'antico dibattito, dovremmo provare a definire con rigore la nozione aristotelica di infinita divisibilità senza avvalerci del moderno concetto di punto matematico. Compito assai arduo che non perseguiremo.

Proseguendo, invece, sulla strada del metodo moderno, va precisato che la locuzione “infinitamente divisibile” che dobbiamo studiare riguarda la fisica e non la matematica, perché nell’argomento della dicotomia è un tratto di spazio fisico a dover essere infinitamente divisibile.
Inoltre, non ci stiamo chiedendo solo se lo spazio sia o meno infinitamente divisibile, ma anche quale sia il senso di questa espressione. Come si può procedere all’infinito nella divisione? Sebbene i fisici di oggi prescindano dalla percezione, sarebbe ragionevole supporre che quando introduciamo dei concetti della fisica ci attenessimo almeno a un principio di percepibilità naturalisticamente inteso. Ovvero nelle nostre teorie fisiche possiamo ammettere solo quelle entità teoriche (non osservabili) per le quali siamo in grado di spiegare perché non le percepiamo o perché le percepiamo con una struttura diversa da come la teoria le delinea.

Possiamo allora procedere nel modo seguente: diciamo che un tratto di spazio è infinitamente divisibile se, presa una parte di esso piccola quanto si vuole, essa è ancora divisibile.

L’espressione “piccolo quanto si vuole” ci porta nell’ambito dell’inosservabile. D’altra parte si potrebbe concepire una tecnologia sempre più avanzata che, in linea di principio, ci porti a scendere sempre di più nel più piccolo.

Dobbiamo adesso definire il concetto di “divisibile “.
Se consideriamo una striscia bianca senza divisioni percettive,

potremmo usare un metodo simile a quello di Dedekind, ma si ha la sensazione che i metodi del taglio presuppongano la divisibilità della striscia, piuttosto che definirla.

Dei diversi tentativi di rendere rigoroso il concetto aristotelico di infinita divisibilità, Fano discute solo quello del matematico Luitzen Brouwer, fondatore della "scuola intuizionistica". 
Brouwer sarebbe stato il primo a mostrare come incorporare nella matematica la questione già sottolineata da Aristotele che un insieme di elementi discreti non può rappresentare il continuo geometrico o intuitivo. Fano dedica alcune pagine per sintetizzare la complessa tecnica sviluppata da Brouwer (1930), e ripresa da Kreisel (1968) e Troelstra (1983).

L'autore analizza quindi uno dei dilemmi che sono alla base di almeno due dei paradossi di Zenone. Se lo spazio fisico sia o no un insieme denso di punti. Ne parleremo nella prossima puntata.

1 Desidero condividere una breve osservazione che va al di là del contenuto del libro di Fano.

Ho notato una chiara connessione tra la seconda antinomia kantiana e il concetto di infinita divisibilità. Sorprendentemente, non ho ancora trovato alcun articolo che esplori questa correlazione. Se qualcuno ne fosse a conoscenza, gli sarei grato se me lo segnalasse.

lunedì 4 settembre 2023

Vincenzo Fano − I paradossi di Zenone − seconda parte − I contributi di Aristotele al paradosso della dicotomia


Un altro punto di riferimento nel mio lavoro di ricerca per il mio terzo libro, Il mistero della discesa infinita, oltre ai già citati Giovanni Cerri e Gustavo E. Romero, è stato il libro I paradossi di Zenone di Vincenzo Fano. Il lavoro dello studioso di logica ed epistemologia mi ha aiutato molto a comprendere il pensiero di Zenone in rapporto al moderno pensiero scientifico, matematico e filosofico.

Qui riporterò una sintesi delle considerazioni di Fano relative alle interpretazioni di Aristotele del paradosso della dicotomia.

La soluzione di Aristotele

Fano propone un'interpretazione di tre passi significativi significativi della Fisica per comprendere la discussione aristotelica sulla Dicotomia.

Prima di tutto Aristotele dimostrerebbe che se lo spazio è infinitamente divisibile lo è anche il tempo. Dopo di che egli osserva che “nella metà di un dato tempo si percorre la metà di una data lunghezza”. Quindi afferma che: "le divisioni del tempo possono essere messe in corrispondenza con quelle dello spazio. La divisione dello spazio che compare nel paradosso non è secondo le estremità (cioè non stiamo parlando di uno spazio infinito), ma secondo la divisione, ovvero è uno spazio finito infinitamente divisibile. Anche il tempo lo è. Quindi non abbiamo una corrispondenza fra uno spazio infinito e un tempo finito ma fra spazio e tempo infiniti nel senso della divisione.

Aristotele discute poi se un punto del moto di un corpo sia in atto o in potenza; e conclude che "se è un punto in cui il corpo arriva e riparte, come ad esempio l’estremo di un moto pendolare, allora quel punto del moto è in atto, altrimenti un punto in mezzo a un moto è solo in potenza

Aristotele nota dunque un ulteriore aspetto dell’argomentazione di Zenone, che non è riconducibile al fatto che per percorrere un insieme infinito di spazi finiti occorre un tempo infinito, ma che in generale non sia possibile compiere un insieme infinito di atti, per il semplice fatto che l’infinito non ha ultimo termine. In altre parole non sarebbe possibile per il corpo C andare da a a b, perché C dovrebbe compiere un’infinita di attraversamenti, e un’infinità non ha un termine finale, per cui C non può arrivare in b. Questo vorrebbe indipendentemente dalla lunghezza degli intervalli. 

"In altre parole, qui Aristotele si sta ponendo con ogni probabilità il problema che i moderni teorici dei supercompiti (ossia realizzare un numero infinito di atti in un tempo finito) sollevano rispetto alle soluzioni standard del paradosso della Dicotomia, cioè a quelle basate sul fatto che la successione Sn = 1- 1/2n per n che tende all'infinito tende a 1.

In termini moderni il problema dei supercompiti è duplice: in primo luogo non si comprende come si possa realizzare un numero infinito di moti in un tempo finito, indipendentemente dal fatto che la loro somma abbia lunghezza finita; in secondo luogo, il fatto che la successione Sn tenda a 1 per N che tende allinfinito riguarda i termini della successione e non il punto darrivo; infatti, 1 non è membro di tale successione. Quindi, avendo dimostrato che Sn tende a 1 non abbiamo ancora provato che il corpo C arrivi a destinazione.

Ma anche così si potrebbe obiettare: resta il fatto che qualsiasi affermazione riguardante la successione degli Sn non è detto che valga per il punto B che non appartiene a essa
Quindi, per risolvere definitivamente questo problema, occorre invocare una sorta di principio di continuità. Ovvero se lo spazio è continuo allora non sussiste nulla fra la serie infinita degli intervalli compresi in ab e il punto B. Per cui il corpo non può che arrivare in B. Questo non solo vale per la fisica contemporanea ma era vero anche per Aristotele.

Nella prossima puntata vedremo l'approfondimento di Fano sul suddetto principio di continuità e le sue premesse per affrontare le  interpretazioni di  Russell (che usò i risultati dei matematici Cantor, Dedekind, Weierstrass e Peano) del paradosso della dicotomia.

lunedì 10 aprile 2023

Considerazioni parmenidiane di Will Storr

E poi ditemi che Parmenide non aveva ragione. :-)

“Il nostro cervello non sta assolutamente sperimentando in modo diretto la realtà in cui siamo immersi. In realtà, è rinchiuso nel silenzio e nell’oscurità della vostra scatola cranica.» Questa ricostruzione allucinatoria della realtà viene talvolta definita come “modello” cerebrale del mondo. Ovviamente un simile modello dovrà essere in qualche misura accurato, altrimenti finiremmo per andare a sbattere contro i muri mentre camminiamo, o per ficcarci la forchetta nella giugulare quando mangiamo. E questa precisione la dobbiamo ai nostri sensi. I sensi ci appaiono come strumenti infallibili: i nostri occhi sono finestre tersissime attraverso cui osservare il mondo in ogni sua sfumatura di colore, in ogni suo minimo dettaglio; le orecchie sono canali in cui si riverseranno i suoni della vita. Ma le cose non stanno proprio così. La verità è che i sensi trasmettono al nostro cervello soltanto informazioni limitate, parziali. …
L’incarico che spetta a tutti i nostri sensi è raccogliere indizi dal mondo esterno sotto varie forme: onde luminose, mutamenti nella pressione dell’aria, segnali chimici. Tutte queste informazioni verranno poi tradotte in milioni di impulsi elettrici quasi impercettibili. Di fatto, il cervello legge questi impulsi elettrici proprio come un computer legge un codice, e li utilizza per costruire attivamente la nostra realtà, dandoci l’illusione che questa allucinazione controllata sia reale. Dopodiché, sfrutterà i sensi per compiere le verifiche del caso, e apportando in tutta fretta gli aggiustamenti necessari, se si accorge che qualcosa non torna.”
...
“È proprio in virtù di questo processo che a volte ci capita di “vedere” cose che in realtà non ci sono. Immaginate che sia già buio e che laggiù, accanto al cancello, vi sia sembrato di vedere un tipo assurdo, mezzo rannicchiato, con un cilindro in testa e un bastone in mano, ma presto realizzate che si trattava solo di un ceppo d’albero ricoperto da un grumo di rovi. Dite alla persona che è con voi: “Ma sai che per un istante mi è sembrato di vedere un tipo assurdo, laggiù?” In realtà, quel tipo assurdo l’avete visto per davvero. Il vostro cervello pensava ci fosse, e così ce l’ha messo; poi, una volta che vi siete avvicinati, e ha avuto modo di ricevere nuove e più accurate informazioni, si è affrettato a riconfigurare la scena, a correggere la vostra allucinazione.”
...
“Se i nostri sensi sono così limitati, come possiamo sapere con certezza che cosa accade realmente fuori dal buio e dal silenzio della nostra scatola cranica? Il vero guaio è che non possiamo. Come un vecchio televisore capace di leggere solo il segnale in bianco e nero, la nostra tecnologia biologica non è materialmente in grado di elaborare gran parte di quello che effettivamente accade nei vasti oceani di radiazioni elettromagnetiche in cui siamo immersi. Gli occhi umani riescono a leggere meno di un dello spettro luminoso. «L’evoluzione ci ha dotati di capacità percettive che ci consentono di sopravvivere» sostiene Donald Hoffman, uno scienziato cognitivo. «Ma questo prevede anche di occultarci tutto quello che non ci serve sapere. In pratica, l’intera realtà, qualunque cosa essa sia.»"
...
“Sappiamo che la realtà vera è profondamente diversa da quel suo modello che sperimentiamo nella nostra testa. Per esempio, fuori dal nostro cervello non esiste alcun suono. Se un albero cade nella foresta, ma nei paraggi non c’è nessuno a sentirlo, il suo crollo indurrà solo dei mutamenti nella pressione dell’aria e qualche vibrazione nel terreno. Il suono dello schianto è un effetto che avviene nel cervello. Quando sbattiamo l’alluce contro uno spigolo e lo sentiamo pulsare forte per il dolore, anche quella è un’illusione. Il dolore non è nel nostro dito, ma solo nel nostro cervello. Là fuori non esistono nemmeno i colori. Gli atomi non hanno colore.”
...
“L’unica cosa che potremo mai davvero conoscere sono gli impulsi elettrici inviati dai sensi. Il nostro cervello narratore utilizza tali impulsi per creare il variopinto scenario su cui andremo a interpretare la nostra vita. Poi lo completerà con un cast di attori, a loro volta dotati di obiettivi, personalità, e di un copione da seguire. Perfino il sonno non rappresenta un ostacolo per i processi narrativi del nostro cervello. I sogni ci sembrano reali perché si basano sugli stessi modelli neurali allucinatori in cui viviamo da svegli. Le cose che vediamo sono le stesse, gli odori sono gli stessi, perfino al tatto gli oggetti ci appaiono gli stessi. L’effetto surreale dei sogni dipende in parte dal fatto che i nostri sensi controllori sono temporaneamente spenti, e in parte perché il cervello deve interpretare le caotiche esplosioni di attività neurale dovute al nostro temporaneo stato di paralisi. Per spiegare questa confusione il nostro cervello reagirà come al solito: metterà insieme un modello di mondo e tirerà fuori dal cilindro una storia basata su causa-effetto. Spesso nei sogni precipitiamo da un edificio o inciampiamo per le scale, una storia che il nostro cervello si inventa per giustificare uno «spasmo mioclonico», ovvero una fastidiosa e improvvisa contrazione muscolare. “

mercoledì 31 agosto 2022

Vincenzo Fano − I paradossi di Zenone − prima parte − una formalizzazione del paradosso della dicotomia e il contributo di Diogene il Cinico

Un altro punto di riferimento, oltre ai già citati Giovanni Cerri e Gustavo E. Romero, per comprendere il pensiero dei filosofi eleati in rapporto al moderno pensiero scientifico e matematico è stato il libro I paradossi di Zenone di Vincenzo Fano.

Qui riporterò una formalizzazione di Fano del paradosso della dicotomia e le sue considerazioni sull'interpretazione di Diogene il Cinico.

1. Prima di tutto Fano espone il paradosso in termini un po' più precisi rispetto alle formulazioni informali.

"Supponiamo che un corpo C si muova da a a b, due differenti luoghi spaziali, con velocità costante. Supponiamo, per semplicità, che la distanza fra a e b sia uguale a 1m e il viaggio duri 1s. Se ipotizziamo che la velocità di C sia costante, essa sarà di 1 m/s."

Ovviamente, per attraversare metà del percorso, C impiegherà 1/2 s. In generale, secondo la cinematica classica, impiegherà esattamente 1/M unità di tempo per percorrere un qualsiasi tratto di lunghezza 1/M contenuto in ab.

2. Quindi Fano rende esplicita l'ipotesi implicita di Zenone, che lo spazio sia infinitamente divisibile (ipotesi che in seguito lo stesso Fano mostrerà essere "non precisabile" - par 2.4).

3. "Dunque C, per andare da a a b, deve percorrere una serie infinita di intervalli di spazio adiacenti, il primo dei quali è lungo 1/2 m, il secondo 1/ 4, il terzo 1/8 ecc., che possiamo così indicare con:"

1/2, 1/4, 1/8, …, 1/2n

4. "Dato che C si muove con velocità finita, per attraversare ognuno degli intervalli della successione impiegherà una quantità finita di tempo."

5. Una conclusione affrettata potrebbe far pensare che una somma infinita di numeri finiti non può che essere infinita. Quindi C adopererà una quantità infinita di tempo per andare da a a b. Per cui C non arriverà mai a destinazione.

Tuttavia, "a una mente matematicamente educata apparirà subito qual è la fallacia nel ragionamento". E cioè che "una somma infinita di numeri finiti non può che dare infinito".
"Infatti, noi possediamo la matematica per affermare che la somma infinita dei membri della suddetta successione dà 1 e non infinito.






Detto questo, in un certo senso, si potrebbe affermare che la questione sia risolta. In realtà un esame storico-filosofico dell'argomento appena presentato aiuterà a comprendere molti aspetti non banali sullo spazio, il tempo, la loro quantificazione e l'infinito".

Il solvitur ambulando di Diogene il Cinico

Diogene Laerzio racconta che quando qualcuno provò a dimostrare che il moto non esiste, Diogene il Cinico si alzo in piedi e se ne andò. Come a dire che bisogna basarsi sull'esperienza e sulla pratica per risolvere questo problema.
"Il senso del gesto di Diogene il Cinico non è però risolutivo, poiché è vero che il movimento è empiricamente evidente, ma l'esperienza potrebbe comunque essere ingannevole, soprattutto se la logica ci mostra che il movimento è impossibile.
Si può anche riformulare così: molti sono d'accordo che il movimento è evidente e che coloro che lo ritengono un'illusione sono sulla strada sbagliata; ciononostante dobbiamo dimostrare in che senso i loro argomenti sono fallaci, cioè ci resta il compito di sostenere argomentativamente l'opinione più comune.

Continua su Vincenzo Fano − I paradossi di Zenone − seconda parte − I contributi di Aristotele al paradosso della dicotomia

lunedì 29 agosto 2022

I paradossi di Zenone sul movimento e il dualismo spazio-tempo – Umberto Bartocci

Umberto Bartocci, I paradossi di Zenone sul movimento e il dualismo spazio-tempo, Episteme, Physis e Sophia nel III millennio, Perugia, N. 8, 2004.

Umberto Bartocci è un matematico, studioso dei fondamenti della matematica e della fisica, noto anche per aver sostenuto tesi minoritarie, come, ad esempio, una critica all’approccio formalistico della matematica proponendo un ritorno a una "fondazione classica".

In questo articolo, pubblicato su Episteme, un giornale ideato e curato dallo stesso Bartocci, il matematico romano riporta sue ricerche e interpretazioni nell'ambito dei paradossi di Zenone e temi correlati. 
In estrema sintesi, Bartocci asserisce che i paradossi di Zenone non possano essere "risolti", ma se ne può solo “spiegare la radice”. E questa ha a che fare con le modalità di funzionamento della nostra mente “ogni volta che si cerchi di concepire esattamente qualsiasi forma di movimento”.
Ponendosi al di fuori della tradizionale interpretazione in cui il tempo, così come lo spazio, è una grandezza continua, Bartocci asserisce che spazio e tempo si intuiscono in modi inconciliabilmente differenti: il primo lo si percepisce densamente popolato da segmenti infinitamente divisibili, e il secondo lo si immagina costituito da intervalli non infinitamente suddivisibili.

Detto in altre parole, il modo in cui intuiamo lo spazio fisico nel quale ci muoviamo sarebbe molto simile al modello ideale dello spazio euclideo usato in geometria: uno spazio continuo costituito da punti infinitesimi e immateriali; mentre il tempo verrebbe percepito come un susseguirsi di attimi atomici ma non infinitesimali e quindi non infinitamente suddivisibili, cioè come un insieme discreto.

Per sottolineare chiaramente la distinzione tra spazio e tempo percepiti e spazio e tempo reali Bartocci fornisce anche una tabella che riassume la sua interpretazione.
Il movimento esiste nella realtà, e in quanto tale non implica alcuna contraddizione: esso è, semplicemente, come intendeva Diogene”, dice Bartocci.
Quindi la radice dei paradossi sarebbe solo nella nostra percezione della realtà e non nella realtà stessa. E, in particolare, nello scollamento tra nostra percezione intuitiva di spazio e di tempo da un lato e il modo in cui i paradossi vengono invece solitamente inquadrati da un punto di vista logico-razionale dall’altro.
L’errore sarebbe proprio nel nostro modo di rappresentare formalmente il tempo. Confondendo le sue caratteristiche con quelle dello spazio lo si tratta attraverso il concetto di "numero reale", che è valido, dice Bartocci, solo per esprimere le misure geometriche di segmenti ma non gli intervalli di tempo. 
Si scambia cioè la necessaria (per l'intuizione umana dello spazio) infinita suddivisibilità dei segmenti della retta spaziale R, con una corrispondente infinita suddivisibilità degli analoghi segmenti della retta temporale T, invece impossibile per l'intuizione umana”.

Alla domanda “come mai ci troviamo quasi d'accordo con Zenone, nel negare la "possibilità razionale" del movimento?" Bartocci risponde: “l'intelletto umano non può concepire l'infinita suddivisibilità di un segmento temporale, con la conseguenza che una somma infinita di siffatti segmenti non può essere per esso altro che divergente”.

Esprimendo il pensiero in termini più matematici Bartocci afferma che: “Accanto alla retta spaziale R, esiste - "nella nostra mente" - un'analoga retta temporale, indichiamola con il simbolo T. Si tratta di un insieme ordinato, meglio spazio ordinato, che rappresenta il tempo nell'intelletto, allo stesso modo che R vi rappresenta lo spazio, almeno nella sua manifestazione 1-dimensionale. Le due "rette" si "assomigliano" di fatto sotto diversi aspetti” … “La retta spaziale R è concepita però in maniera che tra un punto e l'altro ce ne sono sempre infiniti, sicché non c'è alcun modo di introdurre il successivo di un determinato punto. Al contrario, la retta temporale T appare formata da istanti "separati”, ogni istante ha un successivo e un precedente, tra un istante e un altro non si riesce a immaginarne infiniti. T è quello che si dice uno spazio ordinato discreto, mentre R è invece uno spazio ordinato continuo: insomma, R e T non sono strutture isomorfe. È lecito prendere in considerazione, sia in R che in T, delle serie, ossia delle somme infinite di segmenti, ed ecco che dalla fondamentale differenza strutturale tra le due "rette" procede la circostanza che deve ritenersi tanto l'origine dei paradossi, quanto la loro "soluzione": in R esistono delle serie di segmenti convergenti, in T ogni tale serie è necessariamente divergente.

Il semigruppo delle classi di equivalenza di segmenti associato a R, indichiamolo con S, non ha né minimo né massimo, quello associato a T, diciamolo Q, non ha massimo, ma ha un minimo, la classe d'equivalenza dei segmenti con due soli istanti ("il" segmento con due soli istanti). Q può ritenersi coincidere proprio con N = { 1,2,3,...} , l'insieme dei numeri che si dicono naturali.

In altre parole ancora, R e T sono strutture non isomorfe, né se le si riguarda come spazi ordinati, né come insiemi, cioè appare impossibile stabilire, per le caratteristiche proprie degli enti coinvolti, una corrispondenza biunivoca tra segmenti di spazio ideale percorso (elaborazioni della pura geometria della retta continua ideale), e associati segmenti di tempo. Ovvero, la nostra mente è costretta a concepire delle posizioni spaziali virtuali che non possono essere effettive, non possono essere di fatto occupate, non esistendo un istante in cui tale "occupazione" possa avere luogo. Una coppia ordinata del tipo posizione-istante, o spazio-tempo, è quello che si dice un evento, e potremo allora pure sintetizzare la nostra opinione asserendo che: non ogni posizione spaziale del tragitto di Achille corrisponde a un evento.

venerdì 22 luglio 2022

Parmenides Reloaded: tra eleatismo e moderne teorie dei campi

Oltre al libro di Giovanni CerriGustavo E. Romero, Parmenides Reloaded 1, è un altro dei testi a cui mi sono ispirato quando ho scritto le parti del mio nuovo (e ancora inedito) libro che citano il pensiero parmenideo.

Il professore di astrofisica relativistica Romero descrive la sua visione di uno spazio-tempo quadridimensionale e non dinamico in cui il divenire, quindi il tempo, non è una proprietà intrinseca della realtà. Questa e altre caratteristiche rendono la concezione romeriana dell’universo molto simile a quella parmenidea.

Nel suo poema, descritto da Romero come il primo esempio conosciuto di un sistema deduttivo applicato alla realtà fisica, Parmenide afferma che il divenire è un’illusione e che la realtà è immutabile, eterna e immobile. Molti secoli dopo, dice Romero, con l'avvento delle teorie dei campi, diventa chiaro che il cambiamento può avvenire anche in un universo completo. Infatti, una perturbazione in un campo che riempie l'inntero universo è un cambiamento.
Tuttavia, sebbene il concetto di cambiamento sia “centrale nel modello multiforme dello spazio-tempo, una volta che la geometria della varietà è determinata da un campo tensoriale che rappresenta la distribuzione di energia e quantità di moto, la sua struttura è fissa. I punti della molteplicità rappresentano eventi, ma non vi è alcun evento o cambiamento che influisca sullo spazio-tempo nel suo insieme. Lo spazio-tempo quadridimensionale, rappresentato matematicamente dal molteplice, è immutabile, eterno, immobile, unico, proprio come l'universo parmenideo. Gli oggetti che popolano l'universo sono quadridimensionali. Hanno "parti temporali", così come parti spaziali. In questo modo, il bambino che ero, è solo una parte di un essere più grande, io, che è quadridimensionale. Ciò che chiamiamo "nascita" e "morte" sono solo confini temporali di un tale essere. Il cambiamento appare solo quando consideriamo fette tridimensionali di oggetti quadridimensionali. Nelle parole di Max Tegmark: ‘Il passare del tempo è un'illusione. Abbiamo questa illusione di un mondo mutevole e tridimensionale, anche se nulla cambia nell'unione quadridimensionale di spazio e tempo della teoria della relatività di Einstein. Se la vita fosse un film, la realtà fisica sarebbe l'intero DVD: i frame futuri e passati esistono tanto quanto quello presente’”.
Romero offre anche un confronto tra spazio-tempo parmenideo e una sua interpretazione del pensiero di Eraclito proponendo che, a differenza di quanto si è pensato per millenni, probabilmente per una tradizione che ha origine in Platone, queste due visioni non siano incompatibili. Il kosmos (o spazio-tempo in una visione moderna) potrebbe essere immutabile e comunque formato da cose mutevoli, come il fiume di Eraclito.
Romero conclude affermando che Parmenide esiste in una regione dello spazio-tempo situata tra Elea e la Grecia, tra la fine del VI sec. a.C. e la metà del V sec. a.C., e per un po’ di tempo condivise il suo presente con Zenone. “Io”, scrive Romero, “esisto in un’altra regione dello spazio-tempo e non incontrerò mai Parmenide. Ma popoliamo entrambi lo stesso spazio-tempo e per questo mi sento fortunato”.

Marco Fulvio Barozzi ha scritto una recensione dell’articolo di Romero più approfondita della mia.

1 Foundations of Science 17 (3):291-299 (2012)