Giovanni Cerri et al., Dall'universo-blocco all'atomo nella scuola di Elea: Parmenide, Zenone, Leucippo, a cura di Massimo Pulpito e Sofia Ranzato, Academia
Per questa quarta parte riporterò perlopiù il testo di Cerri senza agiungere troppi commenti.
"I nuovi filosofi, che possiamo chiamare post-socratici, avendo posto la dialettica al centro del loro pensiero, elaborarono sistemi fisici, concepiti come lunga catena di enunciati legati l'uno all'altro dal principio di non contraddizione e non come riflessione operativa su un'attività di ricerca fisico-matematica militante e originale. Esempio tipico e superbo di questo tipo di costruzioni teoriche fu la Fisica di Aristotele. Si verificò quindi una vera e propria ridislocazione disciplinare. La fisica, la matematica, l'astronomia furono ritenute discipline specialistiche e lasciate a specialisti, che per parte loro non si occupavano più di sintesi finali di ordine cosmologico. La filosofia includeva bensì tra i suoi grandi capitoli la fisica, ma la fisica filosofica, non quella “scientifica”. La cosmologia in senso forte restò senza padri; sostanzialmente scomparve.
I nuovi filosofi ripresero in mano gli scritti degli antichi, con l'intento lodevole di fare la storia della propria disciplina, ma senza rendersi conto che quegli scritti configuravano una disciplina ben diversa dalla loro, a dispetto dei nomi comuni e ambigui di 'filosofia' e di 'fisica'. Li ripresero in mano e li sottoposero a disamina dialettica: credettero di trovare qua e là intuizioni apprezzabili, ma soprattutto errori logici, da loro attribuiti a una pretesa arcaicità e primitività di quei pensatori, ancora ignari della logica, fondata dopo di loro. Esemplare in questo senso è il giudizio di Eudemo, secondo cui i pensatori antecedenti alla scoperta della dialettica e della logica, 'enunciavano senza dimostrazione'. E pronuncia questa sentenza stroncatoria proprio a proposito della teoria parmenidea dell'ente uno!
È vero: enunciavano senza dimostrazione. Ma non avrebbero potuto fare altrimenti. Per quanto riguarda i loro teoremi matematico-geometrici e astronomici, dovevano di necessità limitarsi ad enunciazioni indimostrate, perché non era ancora nata al loro tempo la prassi del trattato minuzioso ed esaustivo, i loro scritti erano istituzionalmente manuali elementari e divulgativi. Le dimostrazioni c'erano, ma restavano nella loro testa e nel loro insegnamento orale. Per quanto riguarda invece le proiezioni di cosmologia generale, esse erano effettivamente prive di dimostrazione, perché non erano e non potevano essere teoremi compiuti, ma erano congetture ardite sulla natura ultima delle cose, le congetture che sembravano loro più verosimili sulla base dell'insieme dei loro saperi particolari, ma pur sempre intuitive, ipotetiche, tutte da verificare nel prosieguo della ricerca.
E, data questa loro natura di abbozzo concettuale, erano espresse in metafore immaginose ed esemplificative, non in una terminologia univoca e rigorosa, che non erano in grado di attingere.
La cosmologia presocratica, ivi compresa quella parmenidea del monoblocco corporeo, deve essere perciò considerata l'antenata, piuttosto che della metafisica filosofica, di quelle sintesi cosmologiche e/o cosmogoniche che spesso coronano il percorso teorico dei fisici più avanzati dei nostri giorni. Anche i loro scritti sono insieme congetturali e divulgativi come quelli dei presocratici.“.
I nuovi filosofi ripresero in mano gli scritti degli antichi, con l'intento lodevole di fare la storia della propria disciplina, ma senza rendersi conto che quegli scritti configuravano una disciplina ben diversa dalla loro, a dispetto dei nomi comuni e ambigui di 'filosofia' e di 'fisica'. Li ripresero in mano e li sottoposero a disamina dialettica: credettero di trovare qua e là intuizioni apprezzabili, ma soprattutto errori logici, da loro attribuiti a una pretesa arcaicità e primitività di quei pensatori, ancora ignari della logica, fondata dopo di loro. Esemplare in questo senso è il giudizio di Eudemo, secondo cui i pensatori antecedenti alla scoperta della dialettica e della logica, 'enunciavano senza dimostrazione'. E pronuncia questa sentenza stroncatoria proprio a proposito della teoria parmenidea dell'ente uno!
È vero: enunciavano senza dimostrazione. Ma non avrebbero potuto fare altrimenti. Per quanto riguarda i loro teoremi matematico-geometrici e astronomici, dovevano di necessità limitarsi ad enunciazioni indimostrate, perché non era ancora nata al loro tempo la prassi del trattato minuzioso ed esaustivo, i loro scritti erano istituzionalmente manuali elementari e divulgativi. Le dimostrazioni c'erano, ma restavano nella loro testa e nel loro insegnamento orale. Per quanto riguarda invece le proiezioni di cosmologia generale, esse erano effettivamente prive di dimostrazione, perché non erano e non potevano essere teoremi compiuti, ma erano congetture ardite sulla natura ultima delle cose, le congetture che sembravano loro più verosimili sulla base dell'insieme dei loro saperi particolari, ma pur sempre intuitive, ipotetiche, tutte da verificare nel prosieguo della ricerca.
E, data questa loro natura di abbozzo concettuale, erano espresse in metafore immaginose ed esemplificative, non in una terminologia univoca e rigorosa, che non erano in grado di attingere.
La cosmologia presocratica, ivi compresa quella parmenidea del monoblocco corporeo, deve essere perciò considerata l'antenata, piuttosto che della metafisica filosofica, di quelle sintesi cosmologiche e/o cosmogoniche che spesso coronano il percorso teorico dei fisici più avanzati dei nostri giorni. Anche i loro scritti sono insieme congetturali e divulgativi come quelli dei presocratici.“.
Paradossi di Zenone e la matrice parmenidea dell’atomismo
Cerri conclude icosì la sezione del libro che si occupa di Zenone: “Sui paradossi di Zenone si è sviluppata un' imponente letteratura critica in epoca moderna ad opera di matematici, fisici ed epistemologi che, a differenza di troppi storici della filosofia e filologi loro contemporanei, hanno mostrato di prenderli molto sul serio e hanno fatto ricorso a tutta la loro dottrina, ovviamente ben più evoluta di quella di Zenone, per cercare di risolverli. La maggior parte di loro alla fine però è incline a concludere che quelle aporie conservano un margine ineliminabile di aporeticità, nonostante i tentativi analitici più sofisticati.
Ciò dimostra che Zenone, ma certo prima di lui già Parmenide, avevano saputo cogliere fino in fondo il mistero insolubile delle antinomie uno-molti, tutto-parti, continuo-discontinuo, finito-infinito, ecc. Si illudevano di averlo risolto con la fuga in avanti (o all'indietro) dell'uno-tutto-continuo, che fu da un certo punto di vista anche una fuga dal problema stesso. Ma questo e un altro discorso.
Come si è visto, nel corso del mio lavoro non ho fatto alcun cenno a questa pregevolissima letteratura fisico-matematica, anche se poi, nella bibliografia finale, non ho mancato di inserire alcuni contributi, che per altro ho letto attentamente, anche se non sempre sono stato in grado di comprenderli fino in fondo. La ragione di questa mia omissione è che il mio intento non è stato in nessun caso quello di risolvere i problemi posti da Zenone, non solo perché non ne sarei capace, ma anche perché sono fermamente convinto che siano insolubili. Ho voluto invece: 1) Ricostruire filologicamente i termini esatti in cui Zenone pose i suoi problemi; 2) Capirne il senso finale, la funzione argomentativa, che ho creduto di ravvisare nella denuncia delle aporie dell'idea di molteplice, a sostegno dell'idea parmenidea di uno. In sostanza ho voluto fare opera di filologo e di storico del pensiero presocratico, non di matematico, fisico o filosofo, che non sono e non intendo essere”.
Infine, la sezione del libro su “Leucippo e la matrice parmenidea dell’atomismo”, evidenzia la paradossalità del rapporto tra eleatismo e atomismo, che è di opposizione radicale e di continuità profonda al contempo. Riducendola ai minimi termini, Cerri afferma: "gli atomisti del V secolo a.C., per salvare i fenomeni dalla negazione eleatica, sostituirono all'unicità dell'essere la pluralità infinita degli atomi; riconoscendo cioè la validità sostanziale dell’ontologia di Parmenide, trasferirono sui singoli atomi le caratteristiche fondamentali che egli aveva assegnato all'essere unico, tutte, tranne ovviamente l'unicità: dunque, l'unità, l'indivisibilità, l'impenetrabilità, I'eternità, l'immutabilità".
L’autore nota anche che la ricostruzione più generale, secondo cui l'atomismo sarebbe uno sviluppo logico dell’eleatismo, era già presente nella critica antica. Già Aristotele osserva che sia gli atomisti, sia Parmenide sostenevano: ciò che esiste in senso stretto: ‘non può che essere assolutamente pieno’, ma per gli atomisti ‘questo ente non è uno, ma ve ne sono infiniti per numero, per giunta invisibili, data la piccolezza delle loro masse’. Il rapporto analogico tra ente macroscopico di Parmenide ed enti microscopici degli atomisti sarebbe quindi evidente e incontestabile. E la seconda dottrina sarebbe una nuova congettura fisica intesa a superare le aporie nelle quali incorreva la prima.
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