«Comunque», fece Platone voltandosi verso Eudosso e interrompendo quel flusso di pensieri, «parlavo dell’importanza della matematica. Durante questo soggiorno a Taranto, vivendo a stretto contatto con voi e immergendomi negli insegnamenti della scuola pitagorica di Archita, mi sono convinto che la natura stessa del numero e degli enti geometrici è un faro che illumina la strada della comprensione della realtà. Numeri e figure geometriche esistono nel mondo delle idee, mentre nel mondo reale vediamo solo la proiezione delle loro ombre. Ma, numeri ed enti geometrici non sono meno reali di ciò che vediamo e tocchiamo. Anzi, sono sempre più convinto che la vera realtà risieda proprio nel mondo delle idee, quella che si può vedere solo con l’occhio della ragione, come sostenevano anche Parmenide e Zenone».
Eudosso lo guardava vagamente confuso. Frattanto avevano raggiunto l’avvallamento che precedeva la lieve salita verso la penisoletta dell’acropoli. Alcuni uomini stavano trasportando un’imbarcazione leggera da una sponda all’altra della penisola.
«Tuttavia…», Platone sembrava cercare le parole giuste, «abbiamo appena parlato degli aspetti teorici dei numeri e della geometria, ma per quelli più… pratici. Mi riferisco ai calcoli, ai metodi di manipolazione geometrica, alle tecniche di dimostrazione», Eudosso lo fissava dubbioso.
«Ecco, per quegli aspetti… credo che sarebbe opportuno…», il maestro parlava con frammentata cautela, stentando ad arrivare alla conclusione. Forse era ancora in dubbio. Non sarebbe stato più saggio parlarne con Archita? Ma forse non voleva rivelare così apertamente la sua ignoranza proprio al maestro. «Penso che le tue competenze mi sarebbero molto utili». Gli occhi del giovane s’illuminarono. «Vorrei dunque proporti una serie di incontri per discutere di quei temi».
«Ma sì, certo!». Eudosso faticava a trattenere l’entusiasmo. «Anzi, possiamo cominciare subito. Sono a vostra completa disposizione».
«Ah, conosco bene la duplicazione del cubo», replicò subito il giovane. «Il maestro Archita ha preteso che la studiassimo a fondo. Anche perché… la vera soluzione è sua. Quella di Ippocrate è insufficiente perché semplifica il problema ma non lo risolve», sentenziò sistemandosi il chitone sulle spalle. Era un gesto tipico di Archita che il giovane aveva fatto suo. Lo usava, più o meno inconsapevolmente, quando si atteggiava a maestro. «Allora, il problema della duplicazione del cubo», proseguì, «è nato da una richiesta del dio Apollo. La città di Delo era stata colpita dalla peste e i suoi abitanti si radunarono a pregare intorno all’altare a lui dedicato per chiedere di esserne liberati. Attraverso il suo oracolo il dio disse che avrebbe sconfitto la peste se loro avessero raddoppiato l’altare. E, stupidamente,…»
«…loro raddoppiarono il lato dell’altare esistente, che era di forma cubica, ottenendo un altare otto volte più grande», lo interruppe Platone. «Sì, lo sappiamo».
«Ehm…», fece Eudosso. «Sì, lo si sa», ripeté un po’ frustrato. «Dicevo quindi che la soluzione di Ippocrate è insufficiente perché non fa altro che ridurre un problema di geometria dei cubi a un problema di geometria dei triangoli ma il calcolo rimane insolubile. Invece il mio maestro Archita ha trovato la soluzione concreta e non solo teorica, come quella di Ippocrate», sorrise riprendendosi dalla frustrazione.
«E… quale sarebbe questa soluzione concreta?», chiese Platone con circospezione.
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