A chi non è mai capitato di pensare che la formula giuridica che obbliga a dire tutta la verità, solo la verità e niente altro che la verità fosse un po' ridondante?
In realtà, questa formulazione serve per escludere i falsi negativi, e cioè che un colpevole sfugga alla condanna, o i falsi positivi, e cioè che un innocente la subisca.
Perché? Perché se non dico tutta la verità che conosco tra quei fatti nascosti potrebbero
essercene alcuni che potrebbero incastrare il colpevole o scagionare un
innocente. Analogamente se non dico niente altro che la verità aggiungendo
qualche fatto non vero.
Ecco come ne parlano Stefano Leonesi e Carlo Toffalori nel loro libro
Logica a processo: da Aristotele a Perry Mason, in cui paragonano i concetti di coerenza e completezza della logica matematica a quelli della suddetta formula giuridica.
"Occorrerà che assiomi e regole di deduzione si rivelino così centrati e potenti da superare la prova dei fatti, e cioè:
•
escludere dai teoremi qualsiasi contraddizione.
•
garantire a ogni proposizione una soluzione, ovvero una dimostrazione o una confutazione.
Il primo requisito è, appunto, la
coerenza, il secondo la
completezza. Si vorrà poi, in riferimento al concetto tarskiano di verità, che un’affermazione finisca per essere provata se e solo se è suffragata appunto dai fatti,
che dunque il sistema deduca tutto quello che corrisponde alla realtà e niente di quello che la smentisce. Per dirla in termini giuridici,
si chiederà al sistema di dimostrare la verità: “tutta la verità” –la completezza –e “niente altro che la verità” –la coerenza. Come dire, per restare ancora nel campo della giustizia:
escludere in un’indagine che un colpevole sfugga alla condanna, o che un innocente la subisca."