Tra gli interessanti temi trattati dagli autori c'è naturalmente anche quello linguistico. Essendo io un neo-crusc semipentito, sono stato particolarmente stimolato dal tema della contaminazione linguistica e dell'attuale passività dell'italiano rispetto all'inglese.
Gli autori introducono l'argomento riportando il frammento di un'immaginaria conversazione tra due scienziati in un laboratorio: "Non va bene! La gaussiana che hai tracciato non fitta quell'insieme di dati che hai plottato. Il range dei valori è troppo piccolo. Ci serve altro input".
Anche nel mio ambiente, quello delle aziende informtatiche, conversazioni analoghe sono all'ordine del giorno. Mi è capitato addirittura di sentir dire "deletiamo (delete) quei file". Per non parlare poi, in ambito più generale, dei famigerati miscion e lochescion. Ed entrando nell'ambito dei termini inglesi usati a sproposito: gadget, trolley, outing e molti altri. Linguaggio che in una mia lettura precedente viene definito "il prestigioso linguaggio manageriale" con cui "ci s'illude d'essere avveniristici, mentre non si fa altro che risuscitare il linguaggio dei vecchi medici ciarlatani che sulle ricette scrivevano aqua fontis invece di acqua e il malato si sentiva subito meglio".
Gouthier e Ioli affermano che "la traduzione pedissequa di parole come to fit, adattare, to plot, costruire un grafico, nei fastidiosi anglicismi non aiuta a fare chiarezza e denota una certa povertà lessicale". Se tra gli specialisti la comprensione si realizza senza intralci, "quando il fruitore del messaggio diventa un pubblico che non condivide la stessa specializzazione, ecco che il ricorso ad una simile terminologia rende un cattivo servizio e alimenta la confusione".
Sarebbe secondo me auspicabile che il comunicatore si ponesse una domanda: quanti italiani capiscono l'inglese? Una stima nasometrica molto ottimistica potrebbe arrivare al 20%. A questo punto il comunicatore dovrà quindi decidere se rivolgersi principalmente ad una minoranza di meno di un quinto della popolazione del proprio paese oppure se cercare di rivolgersi anche a quella parte meno linguisticamente dotata.
Ma il comunicatore potrebbe spingersi oltre e riflettere sulla passività dell'italiano rispetto all'inglese e sulla mancanza di coraggio nel proporre e far circolare novità linguistiche.
"Per arginare il rischio di sottosviluppo e decadenza della lingua nazionale è importante avere il coraggio di proporre e far circolare novità linguistiche, nella consapevolezza che l'ambiente e la pratica ne decreteranno o meno la permanenza" attraverso una selezione naturale. "La passività dell'italiano è tanto più preoccupante poiché è grave che una comunità scientifica non senta la necessità di disporre di parole nella lingua nazionale per esprimere una parte significativa della propria cultura". Pur mantenendo un certo grado di consapevole apertura alle contaminazioni esterne, "dovrebbe essere sentito come un imperativo quello di accogliere il conio di nuovi termini piuttosto che il semplice prestito da altri bacini linguistici".
"La scienza appartiene all'esperienza collettiva e deve entrare a far parte del dibattito intellettuale nella lingua nazionale, pena la riduzione di quest'ultima a reperto semifossile, incapace di divenire strumento di pensiero e di cultura moderni".
Mi sentirei di aggiungere che molti termini irrinunciabili del nostro attuale patrimonio linguistico collettivo sono nati proprio attraverso la coraggiosa proposta di neologismi. Coraggio che non manca sicuramente nel mondo germanofono dove ad esempio l'uso del calco semantico viene praticato sin dai tempi dei primi contatti tra cultura germanica e cultura classica greco/romana. Ma la maggior parte delle volte non sarebbe neppure necessario lo sforzo di coniare e proporre un neologismo. Spesso sarebbe sufficiente una semplice traduzione.
Un altra considerazione interessante è quella del potere evocativo delle parole. Ad esempio nella mia mente di fruitore italiano dilettante della domenica, il termine passeggiata evoca qualcosa. Mentre il termine walk non evoca nulla. E allora perché usare random walk al posto di passeggiata aleatoria? L'espressione buco nero evoca immediatamente un immagine, l'espressione black hole no.
Concludo con la citazione dell'iniziativa Le magnifiche cinque (traduzioni), di cui sono venuto a conoscenza attraverso l'articolo Il Cogitario Fuffatico di Egolalipazia, come esempio di incoraggiamento alla proposta e alla circolazione di novità linguistiche.
2 commenti:
ciao dioniso, continuo qui il nostro scambio di visioni cominciato sul blog del fotone.
il libro di ghoutier, come ovvio, anche a me è piaciuto molto, e scava in un solco ben poco esplorato da parte dei comunicatori scientifici. se è vero però che "buco nero" evoca un'immagine perchè richiama quella specie di imbuto che succhia materia ed energia, è pur vero che dovremmo discutere non solo su come comunichiamo bensì su cosa comunichiamo.
mi spiego meglio. il buco nero, per esempio, non è buco e non è nero. non è buco perchè se bucasse lo spazio tempo la materia finirebbe in un altro universo (e la conservazione di materia ed energia non lo consente) e non è nero (assorbe la radiazione e quindi è assente di colore). il bosone di higgs non è la "particella di dio" e via dicendo...
è quindi chiaro che, nella maggior parte dei casi, è più corretto (facile?) usare direttamente l'inglese (universalmente riconosciuto dalla comunità scientifica) piuttosto che un italiano sconnesso (e per altro poco chiaro).
per esempio, "passeggiata aleatoria" come somma di due termini non mi sembra molto più chiara di "random walk". inoltre, in ambito comunicativo, dicendo "random walk" potrei stimolare la curiosità dell'ascoltatore, che poi verrà puntualmente ricompensata dalla spiegazione del concetto da parte dello scienziato di turno.
è chiaro che tutto questo si scontra con una carente (a cominciare dal sottoscritto) conoscenza della lingua inglese da parte del popolo italiano, e da qui la necessità di creare nuovi termini scientifici che evochino immagini o che spieghino concetti.
a rileggerci :)
Ciao Jolek,
grazie per il tuo interessante commento. È un onore per un dilettante come me.
Per quanto riguarda l'immagine evocata dall'espressione "buco nero" mi è tornata in mente una battuta che un comunicatore scientifico aveva fatto commentando una risposta di Stephen Hawking ad una domanda in questa intervista. Ma non la riporto visiti i tempi che corrono :-)
Scherzi a parte. Sono completamente d'accordo sul fatto che il buco nero non sia un buco. Ma questo immagino faccia parte un po' dell'ambiguità e della mancanza di rigore intrinseche in quasi tutte le metafore che si usano per descrivere complessi fenomeni scientifici. E comunque se ci sono ambiguità e mancanza di rigore nell'espressione "buco nero" lo stesso si può dire per "black hole". E allora perché aggiungere un ulteriore livello di confusione per il fruitore italiano?
Tu dici che in questo modo potresti stimolare la curiosità dell'ascoltatore. Ma potrebbe anche succedere il contrario, e cioè che l'ascoltatore si scoraggi in quanto la comunicazione risulta più oscura.
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